“Gli immigrati ci rubano il lavoro”: è una delle affermazioni più ricorrenti dei sovranisti nostrani che insinuano fra gli italiani una forma particolarissima di odio fondata sul fatto che gli immigrati rubino il lavoro ai nostri operai: questa narrazione, oltre ad essere infondata, serve, invece, “a rendere ancora più deboli i braccianti” sfruttati dai caporali e dai padroni e favorisce la lievitazione smisurata dei profitti. Altro che esaltazione del popolo italiano (“Prima gli italiani”); si tratta di uno schierarsi esplicito dalla parte del grande capitale nell’ottica della prosecuzione e dell’estensione del dominio delle classi dominanti sui lavoratori italiani.

Questa appena riassunta è una delle contronarrazioni presenti nella raccolta Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche (a cura di T. Drago, E. Scandurra, con Prefazione di P. Bevilacqua, Castelvecchi, Roma, 2021, pp. 148, €17,50).

Il volume, dedicato a Franco Cassano, è il frutto di un lavoro collettaneo di intellettuali, provenienti da discipline diverse, raccolti intorno al sito dell’Officina dei saperi con l’obiettivo di proporre voci in grado di erigere un argine al dilagante senso comune delle narrazioni false e pericolose (come quella esposta all’inizio), che sono in grado, però, di diventare egemoniche poiché, di fatto, ripropongono quanto scriveva Manzoni nel suo romanzo storico a proposito del rapporto fra buon senso e senso comune: “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.

Per sconfiggere la paura del senso comune diffuso, sostenuto da narrazioni che diventano tossiche in quanto producono consenso antidemocratico e conformista, cioè conforme al pensiero neoliberista, e provare a costruirne uno nuovo, sono raccolti testi di Abati, Agostini, Angelucci, Aragno, Bevilacqua, Budini Gattai, Cingari, Drago, Ferri, Fiorentini, Lorenzoni, Marchetti, Masulli, Novelli, Pazzagli, Sangineto, Scandurra, Toscani, Vacchelli, Vavalà, Vitale, Ziparo. Questi scritti, come fa presente il sottotitolo del libro, si propongono nell’ottica di una critica sociale delle narrazioni, come quella riportata all’inizio. Dalla loro lettura emerge come e quanto il concetto di critica sia usato nell’accezione kantiana del termine, cioè come espressione di giudizi che si contrappongono, in quanto contronarrazioni, alle narrazioni correnti, ricettacolo di falsità e bugie.

“Tutti al centro”: lo spopolamento delle aree interne italiane (60% del territorio) è un fenomeno che non può essere ricondotto ad una prosecuzione nel secolo presente di un processo di urbanizzazione iniziato molto prima; è molto di più e ha come prima conseguenza la frattura tra città e campagna. L’estate appena trascorsa ha visto la realizzazione di alcune lodevoli iniziative in zone interne del nostro paese, nella fattispecie in Abruzzo, con l’obiettivo di “riabilitare i paesi, coltivare le campagne, ricostruire un rapporto equilibrato con la natura”. Quindi una contronarrazione operativa che ha messo in discussione, decostruendola, la “metafora sbiadita della stanca modernità del nostro tempo” costituita dal “Tutti al centro”.

L’insieme delle contronarrazioni costituisce un nucleo di controtendenza nei confronti di una forma egemonica nella quale il capitale, e il suo dominio, ha un ruolo di primo piano. E il capitale, vero convitato di pietra nell’elaborazione dei vari contributi, non è un quid astratto in quanto si concretizza in figure il cui potere, la cui filocrazia determinano l’infuturarsi del rapporto fra gli sfruttati e gli sfruttatori, fra gli oppressi e gli oppressori in forme di ineguaglianza non meno feroci di quelle a cui sono stati sottoposti i subalterni di altre epoche storiche. Per avvicinarsi all’obiettivo e creare una coscienza collettiva, ossia un “nuovo senso comune” che sappia cogliere nell’urgenza della soluzione dei problemi immediati la prospettiva di una nuova dimensione del vivere in comune, quello che Marx definiva “Das Kommunistische Wesen” e Gramsci “vita d’insieme”, c’è bisogno di operare nella realizzazione di una nuova volontà collettiva che, una volta, era veicolata dall’opera dei partiti politici (la cui assenza è sottolineata nel volume), ma ora è carente a causa di mancanza di discussione e di confronto e di incapacità di prendere decisioni e assumersi responsabilità. Anche in questo gli scritti che compongono il volume si presentano come pars construens rispondendo all’affermazione di Seneca, nella lettera 104 a Lucilio, secondo la quale “Non è perché le cose sono difficili che non le affrontiamo, è perché non le affrontiamo che sono difficili.”

Le autrici e gli autori delle varie contronarrazioni affrontano le cose difficili, con l’onestà intellettuale di chi è gramscianamente partigiano, ossia schierato da e con una parte. L’indicazione sembra essere quella di procedere alla ricerca delle strade che più possano avvicinare la democrazia, intesa come pedagogia della solidarietà e nel rispetto del dettato costituzionale, al socialismo come sistema economico-politico in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna si pongano soltanto come elemento di riflessione e di studio su una storia passata.
La fatica del concetto, di cui scriveva il vecchio filosofo, si concretizza nei testi della raccolta laicamente, al di fuori della politica intesa come potere, bensì come discussione libera ed aperta nella polis, alla ricerca di un’alternativa: l’alternativa come contronarrazione rispetto al “non c’è alternativa su cui il capitalismo fonda il suo potere e il suo linguaggio”.

Lelio La Porta

apparso su “il manifesto” del 4 settembre 2021

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