La morte di Lorenzo Parrelli, avvenuta lo scorso 21 gennaio mentre il ragazzo stava concludendo il ciclo di “Alternanza scuola-lavoro” previsto per gli studenti nel triennio finale delle scuole di secondo grado, ha prepotentemente riaperto il dibattito su questo istituto introdotto, nel nostro ordinamento scolastico, dal Decreto “La buona scuola” del 2015 emanato dal Governo presieduto da Matteo Renzi.

Molte sono le voci che si sono levate a chiedere l’abolizione dell’Istituto dell’Alternanza e anche quest’associazione ha espresso la propria contrarietà all’Istituto in questione in quanto lo riteniamo, nella sua corrente forma attuativa, assai poco valido ai fini della formazione degli studenti e, in certi casi, addirittura fuorviante rispetto a quelli che dovrebbero essere gli obiettivi primari dell’istituzione scolastica in un Paese libero e democratico.

Ma, in assoluto, è proprio così? Siamo davvero sicuri che l’introduzione di periodi in cui gli scolari vengano a contatto con il mondo del lavoro non possano essere loro utili per arricchire il proprio bagaglio culturale e la loro formazione? Proverò a far seguire alcune riflessioni personali in materia, premettendo che esse saranno riferite solo all’istituto dell’alternanza scuola-lavoro in se e che, invece, la becera applicazione pratica dell’istituto in questione, da parte di tutti gli attori coinvolti, che ha, purtroppo, condotto alla morte di Lorenzo non può che configurarsi come un’ignominia, un modo di fare che va condannato incondizionatamente e che rende ancora più grave, ma non ce n’era sicuramente necessità, il problema della sicurezza sul lavoro.

Istituzione a carattere sociale che, attraverso un’attività didattica organizzata e strutturata, tende a dare una cultura e un’educazione alle nuove generazioni.” Così il “Il vocabolario Treccani” definisce il termine “Scuola” e il “Concise Oxford Dictionary”, al vocabolo “school”, ribadisce: “an institution for educating or giving instruction”. Se stiamo, dunque, alle definizioni che due tra i più autorevoli riferimenti mondiali in tema di significato dei vocaboli danno della parola “scuola”, possiamo dire che educazione e cultura siano gli obiettivi che l’istituzione in oggetto deve irrinunciabilmente perseguire per i propri studenti. E il termine “cultura” non deve essere inteso come mero nozionismo, ma nella sua accezione più ampia di  consapevolezza critica dei propri doveri e dei propri valori, in modo, per dirla con Gramsci, da formare persone capaci “di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige”. Altrimenti che educazione sarebbe?

Già l’ultima parte della citazione di Gramsci ci indirizza, a mio parere, verso una direzione non solo accademica delle finalità della scuola (il “sapere concreto” che egli propugnava), che dovrebbe essere rafforzata dal pensiero di quel che, inevitabilmente e, purtroppo sempre con maggiore difficoltà oggigiorno, attende gli studenti al termine dei loro studi: l’ingresso nel mondo del lavoro

Se questo è lo sbocco di chi esce dalla scuola perché un percorso formativo su quel mondo non dovrebbe trovare posto all’interno dell’istituzione scolastica? 

Se l’alternanza scuola-lavoro tenesse fede alla definizione che ne dà il sito del MIUR: “Un’esperienza formativa che unisce sapere e saper fare, orienta le aspirazioni dei giovani e apre la didattica al mondo esterno”, ritengo essa sarebbe di grande aiuto alle giovani generazioni per entrare nel mondo del lavoro con delle conoscenze sulla sua struttura e sul suo funzionamento. Tali conoscenze, tra l’altro, darebbero ai giovani una maggiore consapevolezza critica delle occasioni lavorative che ad essi si presentano facendoli sentire, secondo me, meno in balia di forze che non conoscono e che non possono “dirigere”.

Certo non ci si deve limitare, come viene fatto ora, a trovare agli scolari la possibilità di svolgere delle attività lavorative in modo che si possa, burocraticamente, certificare l’avvenuto svolgimento dell’attività; ma sarebbe necessario che gli studenti ricevano insegnamenti generali sulla costituzione del mondo del lavoro, sulle regole che lo governano, sui diritti e sui doveri previsti per le figure che ne fanno parte (lavoratori, imprenditori…). La loro esperienza in una realtà lavorativa (azienda, istituzione ecc.), inoltre, dovrebbe prevedere che essi vengano messi a conoscenza di come tale realtà è organizzata e opera al suo interno (obiettivi, struttura, regole interne, finalità delle diverse unità e rapporti tra di esse…) e di come essa interagisce con il mondo esterno (clienti, stakeholders ecc.). Allora si che, a mio parere, l’esperienza perseguirebbe gli obiettivi irrinunciabili della scuola: educare e acculturare.

Personalmente feci il mio ingresso nella scuola, sedendomi ai banchi di quello che allora si chiamava “asilo” (oggi “Scuola materna”), a meno di tre anni per uscirne a ventisei (anche militesente!), dopo un corso superiore post-laurea (oggi “Master”) e il primo contatto con il mondo del lavoro lo ebbi, non perché previsto dal corso di studi ma solo per la lungimiranza di un docente, all’ultimo anno dell’università, mentre tali contatti furono continui durante il Master. Le conoscenze sul mondo del lavoro acquisite grazie a quelle esperienze, unite alle competenze maturate con lo studio mi hanno permesso di indirizzare il mio percorso nel mondo del lavoro in modo sicuramente più soddisfacente e consapevole. 

Credo fermamente che non ci si debba limitare a fornire tali conoscenze solo a coloro che, per possibilità e tenacia, siano in grado di compiere un percorso scolastico di alto livello, ma che esse debbano appartenere al patrimonio di conoscenze di qualsiasi persona, a prescindere dal livello di scolarizzazione raggiunto, in modo che ognuno possa “dirigere” il proprio futuro al meglio possibile. La scuola, pertanto, che è l’istituzione in cui tutti passano per un determinato periodo della vita, deve fornire le conoscenze sul mondo lavorativo e deve fornirle quando tali conoscenze possono diventare patrimonio di tutti gli studenti (penso, ad esempio al periodo della scuola dell’obbligo), in modo da non creare discriminazioni e provvedere, così, tutti (richiamando ancora una volta il pensiero gramsciano) di strumenti direttivi, indipendenza e pensiero critico.

In conclusione: ritengo dovremmo pretendere che l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro venga adeguatamente ridisegnato, che sia ben attuato e gestito in modo che esso divenga realmente formativo e, soprattutto, che si faccia in modo che le norme sulla sicurezza del lavoro vengano scrupolosamente rispettate in modo che non si ripetano tragedie come quella di Lorenzo e di tutti quelli che hanno patito incidenti sul lavoro.

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4 pensiero su “Alternanza scuola lavoro. Riflessioni di un gramsciano pratico.”
  1. Convengo con le riflessioni di Alberto alle quali mi permetto di aggiungerne altre con il fine di una possibile integrazione e, perciò, di una riflessione ulteriore che possa essere finalizzata ad un pubblico, e in presenza, incontro su questi temi. Riprendo Gramsci e, nell’ottica dell’integrazione dell’intervento di Alberto, aggiungo queste parole del comunista sardo: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale” (Q12, 2, 1549). Se prendiamo l’affermazione gramsciana come “terminus a quo” potremmo di certo sostenere che, se lo studio è un lavoro non può essere alternato con altro lavoro. Quindi tutto l’impianto della “legge 107”, la cosiddetta buona scuola, Gramsci lo avrebbe messo in discussione e sostituito con un più intenso lavoro (ancora il termine “lavoro” che è pratica a tutti gli effetti) di conoscenza adeguata, per un’istituzione che si propone come fine la formazione delle cittadine e dei cittadini, della nostra Costituzione, che di lavoro parla, eccome! D’altronde l’educazione civica è divenuta da qualche anno materia di insegnamento da parte di tutti i docenti delle nostre scuole superiori; allora, che venga insegnata! Quando ancora frequentavo le aule dei nostri Licei, non più tardi di due anni fa, mi trovavo le classi semivuote in quanto le studentesse e gli studenti dovevano seguire i percorsi di alternanza scuola-lavoro; così trascuravano il loro lavoro specifico: studiare ed apprendere. Lorenzo è rimasto vittima di un ingranaggio che negli Istituti Professionali è parte integrante del percorso formativo: la professionalizzazione. Ho insegnato, prima di approdare al Liceo, per anni in Istituti professionali; il percorso professionalizzante era seguito dagli insegnanti delle discipline di indirizzo che, o nelle officine allestite in Istituto, oppure presso il porto (insegnavo a Civitavecchia) seguivano da vicino il lavoro degli studenti al fine di garantire le necessarie misure di sicurezza. Soprattutto alla luce di ciò, tutto l’impianto dell’alternanza va rivisto e va recuperato il senso profondo del nesso fra educazione e cultura. Quindi, a questo proposito, vorrei concludere ancora con il nostro Gramsci: “… è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. (…) Una scuola che non ipotechi l’avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola di schiavitù e di meccanicità” (A. Gramsci, Uomini o macchine?, “Avanti!”, 24 dicembre 1916, cronache torinesi, nella rubrica “La scuola e i socialisti”).

  2. Concordo praticamente su tutto con Alberto. Mi permetto di aggiungere che tutto ciò avviene nel deserto totale della discussione  politica, ormai “incartata” cronicamente nei balletti di palazzo e incapace di dare qualsiasi indirizzo strategico, diverso dalla totale acquiescienza al potere culturale ed economico liberista. Noi, nel nostro piccolo, con il nostro “Documento sulla scuola” (https://m.facebook.com/groups/parliamodisocialismo/permalink/993462241098723/),  avevamo provato a rilanciare il dibattito sulla necessità di nuovi valori, indirizzi e scelte per una scuola che rappresenti un’alternativa al modello unico di società in cui siamo costretti. Invece, in questi mesi, abbiamo assistito ad un tormentone tutto incentrato nella gestione della pandemia, con i lavoratori della scuola che sono diventati operatori sanitari e gli studenti i loro pazienti, con i governi che si sono succeduti incapaci di garantire un qualsiasi piano per gestire l’emergenza (trasporti, classi pollaio, gestione del personale, ecc.). Inoltre si è generata una sterile discussione, sui rimpianti per una scuola neo-gentiliana, piuttosto che una asetticamente digitalizzata. Per noi al primo posto c’è la questione sociale e le diseguaglianze che anche la scuola produce. Su questo terreno, si terrà lo scontro ideale e culturale decisivo per il prossimo futuro. Una scuola definitivamente piegata al mercato o una scuola del rinnovamento della democrazia? Che si apra ai nuovi bisogni ecologici o rimanga chiusa nell’ideologia che ha distrutto il pianeta? Dell’avanzamento delle classi subalterne o della loro definitiva esclusione? La sinistra, il mondo che si richiama al progresso, se saranno ancora assenti ad affrontare tale dibattito, perderanno definitivamente le loro ragioni di esistenza.

  3. Trovo il contributo di Alberto molto stimolante. Un Paese civile e democratico dovrebbe avere una scuola dell’obbligo fino al diploma superiore e dovrebbe formare un cittadino che quando finisce il duo ciclo scolastico obbligatorio sia a conoscenza di quali siano I canali per il suo inserimento nel mondo del lavoro pubblico e privato, magari prevedendo un periodo di servizio civile e/o militare obbligatorio di 12 mesi presso strutture sul territorio provinciale in cui si illustrino I funzionamenti degli enti pubblici e privati e delle aziende di produzione e servizi. Si illustrino le differenze tra le varie ragioni sociali; I contratti collettivi di riferimento e come farli rispettare; cone si costrusce lavpropria posizione previdenziale ecc.. Insomma l’ uomo nuovo inizia dal cittadino consapevole e la donna nuova dalla cittadina consapevole.

  4. Poi qualcuno dei soloni della “necessità” dell’alternanza mi potrebbe spiegare che cosa dovrebbe/potrebbe apprendere un giovane a servire ai tavoli di pub mentre, come sottolineava Lelio, sicuramente perde ore che sarebbe stato possibile dedicare a comprendere come si articola il mondo del lavoro, i modi in cui entrarci, come conoscere e far valere i propri diritti ecc.

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