Granatieri dell'esercito italiano che si apprestano alla difesa di Roma

8 settembre 1943

Sono trascorsi ottant’anni dal 1943. La memoria va vivificata; non si può ritenere di vivere in un eterno presente come se quel passato, così tragico per il nostro paese, dovesse essere messo in soffitta. Cogliere nella Resistenza di Napoli e del Sud, dopo Porta San Paolo a Roma, il punto di avvio del movimento che portò alla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo significa legare quel momento alla vicenda che lo precedette e di cui fu la naturale, spontanea, popolare conseguenza. Sono tre articoli, che presenteremo in tre parti, comparsi su «La Rinascita della sinistra» nel 2003 e che vengono riproposti con alcune integrazioni di cui ringrazio il compagno Roberto Del Fiacco.
La prima parte (25 luglio 1943) è stata pubblicata domenica 17 settembre, la terza e ultima (Le quattro giornate di Napoli, 27-30 settembre 1943) sarà pubblicata sabato 30 settembre

Le vicende che condussero alla tragedia dell’8 settembre del 1943 vanno analizzate su due piani apparentemente paralleli; quello dei contatti fra il governo Badoglio e gli anglo-americani per arrivare all’armistizio e quello della progressiva organizzazione delle forze antifasciste che culminerà nelle prime forme di resistenza antinazista all’annuncio dell’armistizio stesso.

Quindi due piani paralleli che, però, convergono in iniziative dalle quali 1) emerge lo sfacelo dello Stato e l’abbandono dell’esercito da parte del governo e del monarca e 2) prende corpo la rinascita della patria attraverso l’azione dell’antifascismo.

Le manifestazioni che fecero seguito alla notizia della caduta del fascismo il 25 luglio si concretizzarono in fermate del lavoro, cortei, comizi, liberazione, in alcuni casi, di detenuti politici senza che, da parte dei fascisti e della milizia, vi fosse una seria forma di resistenza. Sembrava proprio che il fascismo fosse evaporato e che Badoglio e il sovrano potessero dar vita al loro progetto di continuare il fascismo senza il duce. Il primo decreto emesso dal nuovo governo in data 28 luglio scioglieva il Pnf e abrogava la legge sul Gran Consiglio e sul Tribunale speciale.

Ma il pericolo che dalle dimostrazioni in corso in Italia potesse emergere un movimento insurrezionale ad egemonia comunista provocò anche l’emissione della circolare Roatta che vietava cortei, assembramenti, comizi e obbligava a sparare contro chiunque avesse infranto tali norme. Nella direttiva del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito si legge: “Siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani dei cordoni, degli squilli, delle intimazioni e della persuasione. Le truppe procedano in formazione di combattimento (…) Qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe pertanto delitto (…) non est ammesso tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento (…) i caporioni et istigatori di disordini riconosciuti come tali siano senz’altro fucilati se presi sul fatto (…) si apre il fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta”.

Lo scioglimento del Pnf e delle sue istituzioni era una delle richieste avanzate a Badoglio dal Comitato centrale delle opposizioni riunitosi a Milano il 26 luglio; a queste richieste si aggiungevano, però, anche quelle relative alla liberazione dei detenuti e dei coatti politici e alla libertà di stampa. Sulla liberazione dei detenuti politici Badoglio terrà duro (c’erano troppi comunisti fra di loro) e la libertà di stampa, come ha scritto Spriano, resterà “un pio desiderio”. Per ora il Comitato non avanza proposte in relazione alla possibile formazione di un governo democratico e ad un pronto armistizio. Comunque già il 3 agosto si verifica una svolta nella posizione delle opposizioni: infatti una delegazione si reca da Badoglio con l’esplicita richiesta di cessazione della guerra la quale, voluta dal fascismo, ormai caduto, non ha più ragione di essere. Badoglio prende tempo (il suo attendismo sarà uno dei caratteri distintivi dei “quarantacinque giorni”) e di fronte ad una nuova delegazione da lui presentatasi il 13 agosto stabilisce una forma di collaborazione fra governo ed antifascismo a livello sindacale; vengono nominati dei commissari straordinari per l’amministrazione temporanea delle confederazioni sindacali ex fasciste su designazione dei partiti antifascisti (il socialista Buozzi, il comunista Roveda, l’azionista De Ruggiero, il democristiano Vanoni sono alcuni di questi commissari). Lo stesso giorno riprendono i bombardamenti alleati sulle grandi città italiane, la conseguenza dei quali saranno gli scioperi, soprattutto a Milano e a Torino, contro la guerra. Il 22 agosto l’Unità esce con un titolo a tutta pagina: Via i tedeschi dall’Italia. Nell’editoriale si sottolinea l’esigenza di cacciare i “fascisti tedeschi”, si fa presente che li dove non dovesse arrivare l’iniziativa del governo Badoglio si manifesterà la capacità di mobilitazione del Fronte nazionale antifascista; è giunto il momento di proclamare “i tedeschi nemici dell’Italia”. Se a quest’articolo si aggiungono le notizie intorno ad un complotto fascista-tedesco sventato, all’arresto del maresciallo Cavallero (già capo di stato maggiore generale) e all’ uccisione di Ettore Muti, ex segretario del Pnf, si capisce come, all’interno dell’antifascismo, ci si stia progressivamente spostando verso la prospettiva di una lotta armata e della sostituzione del governo in carica con uno formato dai partiti antifascisti. II 30 agosto, per mano di Luigi Longo, viene redatto il Promemoria sulla necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia dei colpi di mano da parte dei tedeschi; sottoposto ai rappresentanti socialisti ed azionisti, il documento pone l’immediata necessità della costituzione di una giunta militare tripartita composta da Longo, Pertini e Bauer. Accolta anche da comunisti e socialisti la pregiudiziale repubblicana proposta dagli azionisti, la giunta militare per la lotta armata individua nei Comitati di fronte nazionale e locali (i Cln di qualche tempo dopo) la spina dorsale della Resistenza e nell’avvento di un governo guidato dai partiti antifascisti il programma immediato da portare a compimento.

Nello stesso periodo il re, Badoglio e i loro collaboratori, impegnati a far fronte alle manifestazioni popolari con l’esercito e preoccupati dalla sempre più massiccia presenza di truppe tedesche nel Paese, peraltro facilitata dal comportamento dello stesso governo italiano che continuava ad intrattenere rapporti con i tedeschi, come testimoniato dagli incontri al vertice dei due eserciti tenutisi il 6 e il 15 agosto, cominciavano a prendere contatto con gli anglo-americani. Due prime missioni furono affidate al marchese Lanza d’Ajeta e a Berio, funzionario del ministero degli esteri, per sondare il terreno. Badoglio non comprese che l’Italia veniva considerata alla stregua di uno Stato sconfitto per cui poteva aspirare ad un minimo di aiuto dagli avversari soltanto dopo aver dichiarato la cessazione delle ostilità, cioè la resa. A queste due prime missioni fece seguito quella di Castellano, addetto al capo di stato maggiore dell’esercito, che il 19 agosto ricevette a Lisbona il testo del cosiddetto armistizio corto dopo aver presentato la proposta del governo italiano, ovviamente rifiutata, sintetizzabile nel modo seguente: sbarcate dalle parti di Roma, dateci una mano e in seguito firmeremo l’armistizio. L’armistizio corto contemplava la cessazione delle ostilità, la sottoscrizione dell’armistizio, la collaborazione con gli alleati e la resistenza nei confronti dei tedeschi. Nel frattempo era stato predisposto un armistizio lungo che imponeva al governo italiano una serie di obblighi politici, economici, finanziari e poneva il governo stesso sotto il controllo diretto degli alleati; questo testo, per il momento, non fu fatto pervenire a Roma. Mentre Castellano riprendeva con comodo la via di casa (partì da Lisbona il 24 agosto ed arrivò a Roma il 27; probabilmente si riteneva che la situazione non richiedesse risoluzioni rapide ed efficaci), il governo di Roma inviò a Lisbona il generale Zanussi, uomo di fiducia di Roatta.

Nella giostra degli equivoci su chi fosse il vero inviato italiano, restava il fatto che il testo dell’armistizio era stato consegnato a Castellano il quale lo aveva mostrato a Roma ricevendo l’incarico di sottoscriverlo; la firma avvenne a Cassibile, presso Siracusa, alle ore 17,00 del 3 settembre. Badoglio, in ogni caso, non aveva ottenuto dagli alleati l’assicurazione che l’armistizio sarebbe stato reso pubblico dopo il loro sbarco nei pressi di Roma al fine di neutralizzare in qualche modo la prevedibile reazione tedesca.

D’altronde la pretesa non era legittima visto che gli alleati avevano chiaramente affermato che “Eisenhower avrebbe comunicato la data e l’ora dell’entrata in vigore dell’armistizio sei ore prima dello sbarco e che il governo italiano avrebbe dovuto nello stesso momento annunciare ufficialmente l’armistizio”. Sebbene gli alleati fossero gli unici a sapere che lo sbarco sarebbe avvenuto il 9 settembre, Badoglio e i suoi collaboratori, nonché il re, capirono che il tempo a disposizione per mettersi in salvo era veramente poco. Nessuno si preoccupò degli italiani e dell’Italia, in specie dell’esercito: nessuna disposizione fu diramata dal comando supremo ai comandi dipendenti in relazione al modo con cui affrontare la prevedibile reazione tedesca dopo l’annuncio dell’armistizio. Badoglio, il re e gli altri pensarono ad organizzare la fuga, dapprima prevista da Civitavecchia, idea rientrata dopo l’occupazione della città da parte dei tedeschi; allora la mattina del 9, dopo aver annunciato alle 19,45 del giorno precedente l’armistizio, si diressero verso Pescara e di lì verso il Sud, protetti dai reparti che erano stati costretti a lasciare la difesa di Roma; ha commentato Battaglia, il grande storico della Resistenza: ”Vittorio Emanuele III abbandona Roma ancor prima di averne tentata la difesa, senza preoccuparsi in alcun modo di ciò che resta dietro di lui”. Viltà, menzogna, infingardaggine, disprezzo del ruolo istituzionale: che miscela esplosiva in questi che furono i veri protagonisti di quella che è stata chiamata “la morte della patria”!

A risollevare le sorti della patria ci pensarono quei soldati e quei civili che presero le armi contro i tedeschi, dopo l’annuncio dell’armistizio, e a Testaccio, Porta San Paolo e altri luoghi di Roma opposero una resistenza tenace e disperata che costò la vita a 600 fra civili e militari. Ha scritto Vasco Pratolini: “Là dove si innalza la piramide di Caio Cestio e dove, accanto ai granatieri, sulla stessa linea del fuoco qualcuno di noi, per la prima volta nella sua vita, aveva imbracciato un fucile, un mitra, o lanciato una bomba a mano, costì, su codesta linea del fuoco, era cominciata la resistenza italiana”.

Lo stesso 9 settembre, mentre il corteo reale fugge lungo la Tiburtina Valeria, nasce il Cln sulla base della seguente mozione: “Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”.

L’esercito italiano in patria si sciolse nel giro di pochi giorni, mentre sorte più articolata attese le truppe all’estero: molti soldati furono catturati e dirottati verso i campi di prigionia in Germania, altri si unirono alle resistenze locali, altri ancora non si arresero ai tedeschi e, come a Cefalonia, furono massacrati.

Ha così inizio la stagione della Resistenza.

Foto in evidenza: 9 settembre 1943, Granatieri a Porta San Paolo, PD

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