La storia, anche quella recente, è materia delicata, sempre da approfondire e ripensare alla luce di nuove documentazioni. Va usata con delicatezza, non ammette ignoranza dei fatti. Insorgo, perciò, di fronte alle superficialità, alle approssimazioni che la stravolgono anche quando le leggo su giornali amici.

È il caso di un articolo, tutto sommato lodevole, pubblicato su “il manifesto” il 4 giugno scorso, autore Francesco Benigno. Nello scritto viene data notizia del nuovo libro di Lutz Klinkhammer e Alessandro Portelli, edito da Donzelli, intitolato “La fiera delle falsità. Via Rasella, le Fosse Ardeatine, la distorsione della memoria”.

A un certo punto Benigno prende spunto dal fatto che nel celebre film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini non c’è alcun riferimento alla strage nazista delle Ardeatine scrivendo “ciò è dovuto largamente all’ipoteca vaticana, e alla rinuncia comunista (a fronte della Svolta di Salerno) di portare avanti a Roma piani insurrezionali non approvati da Badoglio”.

Ora se sul ruolo soffocatore svolto dal Vaticano e da Pio XII – ostili alla Resistenza – si può senz’altro convenire; quella della “rinuncia comunista” in nome dell’unità nazionale cominciata a Salerno e per non fare uno sgarbo a Badoglio, cozza con i fatti.

L’insurrezione a Roma non ci fu per varie ragioni tutte endogene. Ne elenco alcune.

La Resistenza romana arrivò alla liberazione alquanto sfiancata. I Gap erano scompaginati dal tradimento di Guglielmo Blasi, il Centro militare decapitato, le formazioni socialiste e azioniste colpite da delatori e infiltrati. Lo sciopero del 3 maggio che doveva essere la prova generale dell’insurrezione era fallito. Il Cnl di Bonomi, che aveva superato la crisi politica proprio grazie all’iniziativa di Togliatti a Salerno, non approntò nulla tanto che, tenuto a bada dal Vaticano in Laterano insieme al comandante designato della piazza di Roma da Badoglio generale Bencivenga, fu mandato a prendere con una macchina dagli Alleati il 5 giugno a liberazione avvenuta. Infine Kesselring decise di abbandonare Roma il 3 giugno per paura che le truppe naziste fossero imbottigliate nella Capitale per effetto della ritirata generale in corso dopo il crollo del fronte a Cassino. Ma, come si evince dai fatti, le formazioni partigiane non stettero con le mani in mano intervennero, seppure non coordinate dal Cln di Bonomi, aiutando gli Alleati ad aprirsi la strada in periferia e liberando tutta l’area nord della città.

Che c’entra, perciò, la “rinuncia comunista” in omaggio alla “Svolta” di Togliatti? Figurarsi poi quei “piani insurrezionali non approvati da Badoglio”. Non scherziamo.

Inoltre bisogna ricordare sul tema della mancata insurrezione di Roma che all’indomani dello sbarco alleato di Anzio il 22 gennaio ’44 la Resistenza romana era pronta ad insorgere. Ai militari badogliani fu data l’indicazione di occupare innanzitutto i palazzi del potere. I comunisti avevano già stampato un’edizione straordinaria de “l’Unità” che invitava allo sciopero generale insurrezionale che furono costretti a non distribuire, visto l’andamento degli avvenimenti sul terreno militare. Tutto fu fermato dal fallimento strategico di quello sbarco prevalentemente americano. Gli angloamericani furono ristretti e costretti a difendersi in una sacca. In quel frangente, pur non essendoci un governo di unità nazionale, le forze partigiane avevano fatto riunioni tra loro in cui erano venute meno le rigide norme cospirative. Pagarono caro quella esposizione con arresti e infiltrazioni di delatori. La più eccellente fu la caduta del colonnello Montezemolo capo del centro militare clandestino badogliano.

Una delle condizioni dell’iniziativa unitaria di Togliatti da Salerno in poi era proprio quella di dare ampio sviluppo alla Resistenza facendola diventare Guerra di liberazione nazionale. Come avvenne poi in tutte le città che insorsero da Firenze in su. Cosa che culminò nell’insurrezione nazionale anche con la piena approvazione e l’impulso di Togliatti.

Unitari sì, ma non fessi, per sintetizzare il suo pensiero.

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