Nella mia famiglia i valori antifascisti erano ai primi posti tra gli insegnamenti da tramandare ai figli. Mio nonno, comunista, a causa delle persecuzioni fasciste nella fabbrica dove lavorava, fu costretto a scappare in Francia con mia nonna e visse a Nizza diciassette anni, lavorando come muratore, per qualche tempo anche con Sandro Pertini. Quando avevo due anni mio padre morì prematuramente e mio nonno, con i suoi insegnamenti e i suoi racconti, oltre a farmi da padre, lasciò un’impronta fondamentale sulla formazione della mia coscienza antifascista.
Raccontava le angherie e le sopraffazioni cui era stato continuamente sottoposto, in quanto le sue idee erano contrarie all’ideologia fascista. Mi diceva che i fascisti erano contro le conquiste dei lavoratori, sempre dalla parte dei padroni e dei più forti. Sottolineava, come molti che avevano subito in prima persona quella tragedia, che Togliatti, nel ’46, aveva sbagliato a concedere loro l’amnistia, perché sarebbero “ricicciati” (usava questo termine popolare) e avrebbero fatto ancora molti danni. Devo dire che, nonostante le mie letture giovanili, pur comprendendo le necessità storiche di quel momento, la cosa mi ha lasciato sempre molti dubbi per tutto il prosieguo della mia vita. Saranno stati gli occhi convinti e spalancati di mio nonno quando raccontava, ma sul fatto che sarebbero “ricicciati” l’aveva vista lunga, addirittura fino ai giorni nostri.
La mia prima esperienza diretta con la violenza fascista avvenne al primo anno di frequentazione dell’XI Liceo Scientifico “Keplero”. Era il 1973, avevo 15 anni. Oltre ai racconti di cui parlavo prima e l’esperienza drammatica vissuta a undici anni vedendo in tv le sconvolgenti immagini della strage di Piazza Fontana a Milano, non avevo ancora saggiato in prima persona le violenze squadristiche.
Tutte le mattine, fuori scuola, quando noi studenti eravamo in attesa della campanella di inizio lezioni, i fascisti con i caschi in testa, le catene e i bastoni, arrivavano di corsa e picchiavano chiunque trovavano sulla loro strada. Perché lo facevano? Nel ’68 e negli anni a seguire, un grande movimento progressista aveva invaso le fabbriche, le scuole e i quartieri, per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e degli studenti. Loro, come sempre, ostentando l’ordine e la sicurezza, erano il braccio forte di quei poteri che volevano mantenere a tutti i costi le loro rendite di posizione: da sempre forti con i deboli e deboli con i forti! “Sconsigliavano”, a modo loro, ogni vagito di ribellione potesse nascere, impaurendo gli studenti con i loro metodi violenti. Avevano fatto iscrivere un gran numero di loro camerati all’Istituto Nautico, in via della Vasca Navale, per creare un avamposto politico in una zona piena di scuole e molto popolare di Roma. Venivano dalle sedi giovanili del Movimento Sociale Italiano, quello che aveva nel suo simbolo quella fiamma tricolore che ancora adesso primeggia in quello di Fratelli d’Italia, tenuto lì senza vergognarsi di quella storia, anzi, come minaccia a proseguire quel triste passato della nostra Repubblica.
Le violenze avvenivano fuori molte scuole, meno che all’Istituto Armellini, dove, difendendosi legittimamente, li avevano più volte messi in fuga. Non ricordo un solo intervento preventivo o repressivo delle forze di Polizia, famose per le loro complici assenze. Solo una volta furono presenti.
Dopo decine e decine di aggressioni, si formò un coordinamento antifascista di tutte le scuole della zona che decise di indire una manifestazione nei pressi del Nautico, per riconquistare gli spazi democratici e denunciare il clima di continua violenza e sopraffazione ai danni degli studenti.
Lungo il percorso del corteo trovammo un cordone di Carabinieri che bloccavano la strada. Dietro loro, beffardamente protetti, c’erano i fascisti, che con i loro saluti romani, ce ne dicevano di tutti i colori e che, al nostro avvicinarsi, ci gettavano contro di tutto, senza che le forze dell’ordine intervenissero. Voglio precisare che in vita mia non ho mai visto reprimere in maniera violenta, come si è fatto da sempre con l’altra parte politica, un corteo neofascista. Ma il colmo fu che partì una carica verso di noi. Il corteo si disperse e io fui inseguito da un uomo in divisa che sparò alcuni colpi di fucile, uno dei quali andò a colpire, rimanendo per anni come testimonianza, il muro sotto la finestra del primo piano del mio liceo.
Il clima di violenza la cui responsabilità era tutta da imputare ai fascisti determinò degli episodi emblematici della realtà politica di quel periodo. Tra i tanti spicca una vera e propria “improvvisata” che gli operai dell’OMI, ex fabbrica nei pressi di Ponte Marconi, riservarono agli squadristi. All’ennesimo attacco sotto scuola, trovarono gli operai in tuta insieme a noi studenti e fuggirono a gambe levate, non prima di ricevere alcuni “avvertimenti” a non tornare più. L’unione tra lavoratori e studenti era molto forte e insieme si lottava per le conquiste dei diritti sociali e la difesa degli spazi democratici nei quali tali conquiste potessero trovare forme di organizzazione. Guarda caso le aggressioni avvenivano dopo l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, le lotte per il diritto alla casa e per la sanità pubblica e gratuita, l’approvazione della legge Fortuna-Baslini sul divorzio. Loro come sempre dalla parte di chi non voleva tutto ciò: forti con i deboli, deboli con i forti.
Un altro episodio, forse, ancor più rappresentativo dell’esasperazione causata da queste aggressioni. Il Liceo era stato occupato, i fascisti avevano bloccato il cancello del cortile: non facevano entrare ed uscire nessuno. La Preside aveva chiuso il portone interno. Noi del Collettivo decidemmo di uscire per riconquistare la nostra libertà di movimento. Il portone fu abbattuto, io ed altri ci prendemmo una settimana di sospensione. La punizione avrebbe potuto essere ben più grave, ma mia madre in lacrime dalla Preside, scongiurò la mia “sospensione da tutte le scuole della Repubblica”. Però, in quell’occasione fu la prima volta che la stragrande maggioranza degli studenti partecipò convinta alla cacciata dei neofascisti e io non pensai mai per un momento alle conseguenze.
Alcuni giorni dopo vennero ancora più in forze e bloccarono di nuovo il cancello. Nel terrazzo dell’ultimo piano stavano facendo dei lavori e c’erano dei calcinacci per terra. Si decise di lanciarglieli contro. Dopo alcuni minuti, mi accorsi che, vicino a noi, oltre a numerosi professori, c’era anche la Preside impegnata nel lancio. Chissà quante volte aveva avvisato le forze dell’ordine. Adottò l’unico e ultimo disperato possibile tentativo di proteggere la sua scuola da quella teppaglia.
Ho raccontato questi episodi perché quando si parla di quegli anni si tende a mettere tutto dentro lo stesso calderone. I comunisti con i fascisti; chi lottava per una società migliore e quelli che la osteggiavano; chi aggrediva e gli aggressori.
Nella mia lunga militanza politica nel Partito Comunista Italiano, non ho mai sentito che da una qualunque nostra sede sia mai partita un’aggressione o una spedizione punitiva verso chicchessia. Piuttosto eravamo impegnati, con grandi sforzi, nella difesa della democrazia, per l’avanzamento delle classi subalterne e la conquista dei diritti sociali. Ho sempre visto con i miei occhi che le organizzazioni di sinistra, in questo caso tutte, erano costrette a creare servizi d’ordine e di autodifesa, per contrastare le aggressioni e sopraffazioni fasciste che infestavano l’intera nostra città (in seguito qualche militante extraparlamentare scelse personalmente di dare vita ai gruppi della lotta armata). Tali aggressioni partivano quasi tutte dalle sedi del Movimento Sociale Italiano, quello con il simbolo della fiamma tricolore che nasceva sulle ceneri del fascismo. La stessa fiamma presente nel simbolo del partito dell’attuale Presidente del Consiglio, mai intenzionata a spegnerla definitivamente.
Sappiamo tutti che Giorgia Meloni al tempo del ventennio non era neanche nata. Sappiamo anche che non era nata nella prima metà degli anni Settanta. Ma da qualcuno dei suoi camerati avrà saputo delle centinaia di aggressioni che partivano dai covi del MSI, dei tentativi di Colpo di Stato del ’70 e del ’74, della presenza dei suoi avi nei servizi deviati, in Gladio, nella P2 e in tutti i più vili complotti perpetrati nel nostro Paese.
Noi che abbiamo fatto mille battaglie contro di loro, anche se oggi cercano di mascherarsi con diversi travestimenti, li riconosciamo subito. Molti di loro che infestavano le nostre scuole, i nostri quartieri, che assaltavano le nostre sedi, sono ben inseriti e infiltrati nei gangli del potere. Sappiamo, per esperienza, che il miglior modo di combatterli non è quello di farsi dire che sono antifascisti, non lo diranno mai perché fa parte del loro DNA. La difesa e l’accrescimento degli spazi democratici, l’organizzazione dei ceti più deboli, degli studenti e la loro partecipazione alle scelte e al governo dei processi politico-sociali, restano la migliore medicina per combatterli. Da quando manca questo argine, questa linfa vitale per la democrazia, loro sono “ricicciati”, sono arrivati al governo del Paese.
Immagine di copertina creata con intelligenza artificiale (Adobe Firefly©)
“Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio”, scriveva Gramsci al fratello Carlo il 12 settembre 1927 dal carcere di San Vittore in Milano. L’articolo di Roberto, dal quale emerge non solo la memoria di quello che è stato ma la necessità di riprendere la lotta in presenza di situazioni analoghe a quelle di allora, spinge a ricominciare dall’inizio, come scrive Gramsci. Il tempo storico è diverso ma l’avversario è lo stesso, subdolamente nascosto dietro il velo delle istituzioni nelle quali sta operando nell’ottica del potere assoluto. Per questo utilizzare la memoria è necessario e riproporsi nei termini della resistenza attiva attraverso lo studio, la ricerca, la diffusione fra i giovani delle idee di opposizione unite ai valori della nostra Costituzione diventa compito prioritario e obbligatorio.