L’articolo originale è apparso su TusciaWeb a firma Daniele Camilli il 27 aprile 2021

Maria Reginalda Gerzani, Maria Emidia Lucarelli e Maria Elena Jannini. Sono tre suore dell’ospedale di Viterbo che durante la guerra hanno fatto parte attivamente della banda partigiana Biferali del partito comunista. Nascondendo armi ed esplosivi e, quando possibile, facendo scappare i prigionieri di nazisti e fascisti che, feriti, venivano ricoverati nell’ospedale grande.

Una storia di lotta partigiana che ha visto come protagonisti il partito comunista clandestino viterbese, che aveva messo in piedi la banda Biferali, dedicata a Ferdinando, il suo fondatore, caduto sotto i bombardamenti alleati del maggio 1944. E tre suore che misero la propria casa a disposizione del Pci e della lotta partigiana.

Una storia venuta fuori domenica scorsa durante le celebrazioni per l’anniversario del 25 aprile, festa della liberazione dal nazifascismo.

Grazie ad Alessandro Mangiavacchi, figlio di Gino, ultimo comandante della banda, che domenica ha voluto rendere omaggio alle tre suore in largo Ferdinando Biferali al Carmine, vicino Pianoscarano.

Con due targhe simboliche. Plastificate. Con i nomi delle suore e di Biferali. Messe, con un mazzo di fiori portato dall’Anpi e dalla Rete degli studenti, a ridosso del palo della luce che taglia in due il nome della piazza. Sfondo campo sportivo e le campagne dove comincia Castel d’Asso con i suoi braccianti e proprietari. Il tutto in solitaria e senza nemmeno uno squillo di tromba. “Una questione privata”, come il romanzo di Beppe Fenoglio.

“La sede della banda Biferali – racconta Alessandro Mangiavacchi – era nella casa delle suore dell’ospedale vecchio di Viterbo, dove c’era anche la polveriera e venivano nascosti le armi e gli esplosivi. Le suore – prosegue Mangiavacchi – erano infermiere dell’ospedale che parteciparono spontaneamente alle attività della banda, dando una copertura importantissima. Difficilmente qualcuno poteva pensare che una banda comunista si potesse nascondere in una casa di suore. Le suore permisero poi il rapporto con i prigionieri feriti e quando fu possibile anche la fuga, salvando delle vite che altrimenti sarebbero state destinate con molta probabilità alla fucilazione”.

Ferdinando Biferali era nato a Civitavecchia nel 1901. Barbiere, comunista, ardito del popolo. Condannato e confinato durante il ventennio, divenne poi commissario politico a Viterbo della banda partigiana che portava il suo nome. Caduto sotto i bombardamenti alleati del 27 maggio 1944, è medaglia d’argento al valore militare alla memoria. Biferali morì nei pressi del carcere di Santa Maria in Gradi, oggi università degli studi della Tuscia, dove c’erano diversi prigionieri politici appartenenti al partito comunista e dove, tra il dicembre del 1943 e il gennaio del ’44, transitarono gli ebrei viterbesi diretti verso i campi di sterminio nazisti. Biferali, con l’aiuto di alcuni militanti mandati dal Pci romano, mise in piedi una serie di cellule partigiane sia a Viterbo che in provincia, con diversi atti di sabotaggio ai danni di fascisti e tedeschi.

“La banda Biferali – racconta Alessandro Mangiavacchi – ha svolto azioni di sabotaggio, come lo spargimento di chiodi a quattro punte per le strade, e al tempo stesso proteggeva i prigionieri alleati scappati dai nazisti e soccorsi dai partigiani italiani”.

Alessandro è figlio di Gino Mangiavacchi, il comandante partigiano che il partito comunista romano mandò a Viterbo a dirigere la banda partigiana in sostituzione di Biferali.

“Mio padre – racconta il figlio Alessandro – veniva da Roma da dove era scappato perché i nazisti lo avevano condannato a morte in quanto proprietario della polveriera di via Giulia. Arrivò a Viterbo su indicazione del partito comunista. E con la banda fece tutta una serie di operazioni. Mio padre fu chiamato a sostituire Ferdinando Biferali, come comandante. Questo avvenne poco prima della liberazione di Viterbo. Con la liberazione, la banda fu sciolta”.

“Militante sin dal 1939 nell’organizzazione comunista clandestina – sta scritto sul sito internet dell’Anpi – mentre lavorava presso il Laboratorio di precisione dell’Esercito, Gino Mangiavacchi, nato ad Albano Laziale in provincia di Roma l’11 dicembre 1913, fu scoperto e arrestato nel 1942. Deferito al tribunale speciale restò in carcere sino alla caduta del fascismo e vi rimase sino a quando i tedeschi attaccarono la Capitale. Fu in quella circostanza che l’operaio passò alla lotta armata, prendendo parte coraggiosamente alla vana difesa di Roma. Quando i nazisti ebbero il sopravvento, Mangiavacchi, per incarico del Pci, passò la linea del fronte e, raggiunta Bari, riuscì ad entrare in contatto con la britannica Special Force”.

Una storia, quella della banda Biferali, che in qualche modo ricollega, come un fiume carsico, la storia del partito comunista clandestino viterbese con il mondo dei Gap romani. Gruppi di azione patriottica. Espressione diretta e immediata dei partigiani comunisti. Una lotta durissima. Vite sacrificate, e sacrificabili, almeno all’inizio, che accesero concretamente la miccia della lotta armata contro nazisti e fascisti svolgendo un ruolo fondamentale durante tutta la resistenza. Una storia segnata a Roma dall’attentato di via Rasella e dalla tragedia delle fosse Ardeatine nel marzo del 1944. Una storia che si riallaccia a quella della banda viterbese e che fa di largo Biferali, ma soprattutto della sede Biferali a Pianoscarano, con quella dell’Arci oggi Cosmonauta, comprate entrambe, veramente, con i sacrifici dei lavoratori, luoghi sacri della sinistra comunista viterbese. O almeno di quello che resta e che ogni anno, il 7 ottobre, si ritrova davanti alla tomba di Luigi Petroselli al San Lazzaro per celebrare la memoria del sindaco di Roma e di un grande padre della democrazia italiana.

“Nell’ottobre del 1943, dopo un rapido addestramento – prosegue il sito dell’Anpi – Mangiavacchi fu fatto sbarcare vicino a Sabaudia dagli inglesi e riuscì fortunosamente raggiungere Roma con un carico di esplosivi, che potè consegnare al comando dei Gruppi di azione patriottica. Ricercato dalle SS, si trasferì nel viterbese dove assunse il comando delle formazioni garibaldine già operanti nella zona”.

Una storia, quella di Gino Mangiavacchi e della Biferali, che quando si sciolse contava una cinquantina di membri, che ricollega la storia dei comunisti viterbesi, quanto meno quella della clandestinità, ai Gap romani.

“I gappisti – spiega Santo Peli nel libro Storie di Gap pubblicato da Einaudi – combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, cioè sia con uccisioni mirate di singoli individui, sia con attentati dinamitardi”. I primi atti di guerriglia urbana in Italia. “Inoltre, i Gap sono organizzati e diretti dal Pci, e dunque restano, durante la resistenza e anche nei decenni successivi, connotati politicamente in modo molto più marcato di quanto accada per tutte le altre formazioni partigiane”.

“Il guerrigliero di città – prosegue Peli – si applica alla studio metodico delle abitudini dell’avversario da colpire”. Agili formazioni armate che poi rivendicavano ogni loro azione. “Soldati senza uniforme”, i Gap avevano il compito di “costituire – prosegue Peli – il detonatore della lotta armata, colpendo in città, con azioni ‘esemplari’”. Un modello basato sulla guerra per bande per determinare le condizioni di una guerra di popolo”. I Gap, la cui vita era durissima e l’esito spesso scontato, dovevano “creare l’atmosfera di guerra”, ossia impedire che venisse accettato “un modus vivendi che garantirebbe ai tedeschi un comodo sfruttamento delle risorse, e ai fascisti di accreditarsi come governo legittimo”. L’obiettivo era “portare la guerra e la morte in casa del nemico attraverso – conclude Santo Peli – azioni spettacolari, sabotaggi e attentati diretti contro esponenti di un certo rilievo delle milizie fasciste e naziste”.

Gino Mangiavacchi era ricercato dai nazisti perché proprietario del deposito di armi del partito comunista clandestino in via Giulia 25 a Roma dove c’era anche un altro partigiano. L’accademico Gianfranco Mattei, torturato a via tasso, dove si suicidò e dove, alcune settimane prima, era passato anche un altro partigiano viterbese, Mariano Buratti, ucciso nella capitale alla fine di gennaio del 1944.

“Per il contributo da lui dato alla lotta di Liberazione – conclude l’Anpi – Gino Mangiavacchi nel dopoguerra è stato decorato con la medaglia d’argento al valor militare”.

Il 25 aprile il figlio Alessandro, in largo Biferali, ne ha ricordato la storia e assieme ad essa quella di un fantasma che tanto tempo fa s’aggirava pure per le vie di Viterbo, trovando in tre suore, infermiere dell’ospedale, tre valide compagne di strada.

Infine, nota a margine, il motivo della scelta di largo Biferali per celebrare la memoria delle tre suore. “In tal caso – spiega Mangiavacchi – la scelta non è dovuta al nome della piazza, ma al fatto che qui c’è un’edicola dedicata alla Madonna. Ecco, ci sembrava il modo migliore per ricordare il contributo dato da queste tre suore alla nascita della democrazia e della repubblica italiana”.

di Daniele Camilli

 

L’articolo originale è apparso su TusciaWeb a firma Daniele Camilli il 27 aprile 2021

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *