La favola della efficienza nei servizi privatizzati.

“… there is a standard technique of privatization namely defund what you want to privatize like when Thatcher wanted to privatize the railroads. First thing to do is defund them then they don’t work and people get angry and they want to change. You say okay, privatize them and then they get worse…” “… c’è una tecnica standard di privatizzazione e cioè togliere fondi a ciò che si vuole privatizzare, come quando la Thatcher voleva privatizzare le ferrovie. La prima cosa da fare è togliere fondi, poi non funzionano e le persone si arrabbiano e vogliono cambiare. Tu dici va bene, le privatizzi e le cose poi vanno peggio…” (Noam Chomsky, “The State-Corporate Complex: A Threat to Freedom and Survival”, trascrizione dal discorso tenuto all’università di Toronto il 7 aprile 2011)

Questa frase è stata citata talmente tante volte su Facebook da far sospettare fosse falsamente attribuita a Chomsky. In questo caso Chomsky ha veramente detto quello che ho trascritto (al minuto 1:09:35 della registrazione di cui metto il link in calce).

Ma la cosa più interessante è che, normalmente, nelle privatizzazioni il percorso è proprio quello descritto dal grande intellettuale antiimperialista americano.

Nel caso dei servizi pubblici di cui ci occupiamo la strategia è stata un po’ diversa ma altrettanto efficace.

Infatti, con la scusa dell’efficienza, della copertura dei costi e delle esigenze della Unione Europea, si è partiti direttamente (da molti anni) con iniziative legislative top – down (dall’alto verso il basso) che hanno privatizzato tutti i servizi.

Sono stati talmente efficaci che anche quando i servizi sono gestiti direttamente da un ente pubblico (Comune, consorzio tra comuni, ecc.) in realtà il modello cui deve tendere la gestione è quello imprenditoriale.

Infatti, come detto nell’ultimo intervento, le tariffe sono definite “corrispettive” o “sinallagmatiche” e i piani finanziari che le regolano comprendono una quota di remunerazione tale da simulare il profitto che ricaverebbe un imprenditore che operasse su un ipotetico libero mercato.

In alcuni casi (distribuzione di energia elettrica e gas) invece si è proprio assistito alla liberalizzazione della distribuzione.

In altri (scuola, sanità) il percorso è ancora in itinere e sono proprio i casi in cui si applica la regola di Chomsky (dal 2008 al 2016 la spesa pubblica per istruzione è passata dal 4,8% del PIL al 3%).

Resta però un fatto, in nessun caso la privatizzazione garantisce, in se e per se, risparmi per l’utenza o più efficienza.

Facciamo un po’ di esempi.

Lascio stare le autostrade, monopolio naturale in cui i privati hanno solo guadagnato e mai investito, tanto da sfociare nella tragedia del ponte Morandi, perché sarebbe “vincere facile”.

Parliamo di acquedotti e ciclo integrato delle acque.

Come accennato il settore della distribuzione dell’acqua è stato uno dei primi ad essere remunerato con una tariffa corrispettiva (che, come visto la volta scorsa, corrisponde ad una privatizzazione in termini di remunerazione).

La situazione del ciclo integrato delle acque (che comprende tutte le fasi dall’emunzione alla depurazione delle acque reflue) è questa:

  • Gli investimenti pubblici sono calati (tra il 2011 e il 2016) del 39,70%
  • Secondo il “censimento delle acque” ISTAT del 2015 le perdite degli acquedotti sono il 41,40% delle acque immesse nel circuito (avete letto bene gli acquedotti perdono oltre il 40% dell’acqua immessa nelle condutture alla fonte) “equivale a 3,45 miliardi di metri cubi – flusso equivalente ad una perdita di 109.253 litri al secondo – con una particolare accentuazione nel Centro (48,2%) e nel Mezzogiorno (47,9%). Si rileva la perdita di almeno la metà dell’acqua immessa nelle reti idriche in Basilicata (56,3%), Sardegna (55,6%), Lazio (52,9%) e Sicilia (50,0%)”;
  • Nel 2018 sono 2 milioni 685 mila le famiglie che segnalano irregolarità nella fornitura idrica, pari al 10,4% delle famiglie italiane. Il fenomeno dell’irregolarità della fornitura di acqua è in ascesa negli ultimi anni: la quota di famiglie con irregolarità nella fornitura di acqua era dell’8,7% nel 2014.”

Tutti i dati e i virgolettati sono tratti da uno studio di Confartigianato pubblicato nel 2019 (come al solito link in calce).

Vediamo invece come va dal lato della raccolta e depurazione delle acque reflue.

Il 7 ottobre 2021, su Europa today (Link in calce), viene data notizia di una sanzione della Corte europea al nostro paese perché almeno 159 comuni sono senza fogne o con scarichi fuori norma, nello stesso articolo leggiamo che già pagavamo 55 milioni di euro/anno per analoga sanzione che riguarda un altro gruppo di comuni: «L’Italia, ha stabilito la Corte, non ha preso le disposizioni necessarie per garantire che siano provvisti di reti fognarie per le acque reflue urbane ben 159 agglomerati nel Paese, e non ha assicurato che siano sottoposte al trattamento appropriato le acque reflue urbane che confluiscono nelle reti fognarie in altri 461 agglomerati.»

Prendiamo un esempio “virtuoso” di privatizzazione, ACEA, ed affidiamoci all’analisi svolta da un azionista della società cioè la Fondazione di Finanza Etica che è legata alla rete delle banche etiche europee.

Nel documento pubblicato sul sito della fondazione (link in calce), in esito alla Assemblea degli azionisti 2021 di Acea (relativa all’esercizio 2020), si ricava che in quell’anno, la società ha registrato un utile di 178 milioni di euro.

L’utile è stato distribuito agli azionisti nella misura del 95% sotto forma di dividendo per poco più di 170 milioni di euro (link in calce al sito istituzionale di ACEA).

Secondo le osservazioni dell’azionista, l’ambito ACEA ATO2 (l’abito ottimale che raccoglie i comuni della Città metropolitana di Roma, Capoluogo compreso) ha lievemente migliorato il risultato riducendo le perdite di acqua potabile dal 44% al 42,7 (tralasciamo il risultato clamoroso dell’ATO 5, Frosinone e provincia, che perde oltre il 68% dell’acqua immessa nelle tubature).

Situazione quindi sostanzialmente in linea con la media nazionale registrata dall’ISTAT. Di che ci lamentiamo? L’ho già scritto, il diavolo si nasconde nei dettagli.

Occhio alle date: lo studio dell’ISTAT è del 2015, i dati commentati da Fondazione etica si riferiscono al 2020, ma, soprattutto, la quotazione in borsa (quindi la totale privatizzazione istituzionale di ACEA) data al 1999.

I dati sono disallineati nei tempi ma a chi scrive sembra certo che

  1. Dal 1999, anno della privatizzazione di ACEA, al 2015 la situazione delle perdite idriche non è neanche riuscita ad allinearsi alla media nazionale (quando avrebbe dovuto essere migliore secondo la vulgata tutta ideologica sulle privatizzazioni);
  2. Neanche confrontando il quinquennio 2015/2020 le perdite idriche sono riuscite a ricondursi alla media nazionale.

Noto che il principale socio privato di ACEA, Suez SA, è una delle multiutility più grandi al mondo (gestisce servizi ambientali in diversi paesi europei o extraeuropei), quindi è sicuramente dotata di capacità tecniche.

Il secondo socio (con una quota di gran lunga inferiore) Francesco Gaetano Caltagirone è il presidente del Gruppo Caltagirone, ben noto ai Romani come il principale gruppo immobiliare e di costruzioni della città e forse del paese.

Quindi la capacità tecnica non mancherebbe, il problema è che questi sono solo partner finanziari, in altre parole sono soci solo per “fare soldi” con il valore delle azioni e i dividendi. Ciò è perfettamente legittimo e nel loro diritto di azionisti, ci mancherebbe in un sistema capitalistico.

Il problema è che motivazioni simili sembrano ispirare l’azionista di maggioranza cioè l’Amministrazione di Roma Capitale che difficilmente può rinunciare, data la situazione debitoria devastante e risalente negli anni, a quella manciata di milioni (più o meno ottanta) che le garantisce la partecipazione di controllo.

Tanto per dare un ordine di grandezza, dai dati della relazione al bilancio 2021, l’area idrico di ACEA “ha realizzato investimenti complessivi per € 522,1 milioni, con una variazione in aumento rispetto al precedente esercizio di € 46,1 milioni, dovuto ai maggiori investimenti di Acea Ato 2 (+€ 32,9 milioni), GORI (+€ 6,0 milioni) e AdF (+€ 2,9 milioni), parzialmente compensati dai minori investimenti di Acea Ato 5 (‑€ 6,3 milioni). La variazione dell’area di consolidamento si riferisce a SII per € 8,5 milioni e ad Adistribuzionegas per  € 2,5 milioni. Gli investimenti dell’Area si riferiscono principalmente agli interventi manutenzione straordinaria, rifacimento, ammodernamento e ampliamento degli impianti e delle reti, alla bonifica e all’ampliamento delle condotte idriche e fognarie dei vari Comuni e agli interventi sui depuratori e agli impianti di trasporto (adduttrici e alimentatrici).” (Relazione sulla gestione, pag. 28 del Bilancio consolidato 2021 ACEA).

Come si vede gli utili distribuiti non sono proprio una goccia nel mare per ACEA.

Di contro, a fronte di una spesa corrente del Bilancio comunale di circa 5 miliardi di euro, ottanta milioni rappresentano poco più dell’1,4%, anche qui una cifra significativa ma, diversamente da ACEA, forse finanziabile con una maggiore attenzione alla evasione che coinvolge i tributi del Comune.

Però ciò che conta ai fini della nostra analisi è che, di per se, la privatizzazione di ACEA non sembra aver comportato un miglioramento della qualità del servizio.

Non parliamo poi delle conseguenze ambientali delle perdite idriche, altrimenti il bilancio diventa veramente drammatico.

Ancora (mi scuso di nuovo per la lunghezza dell’esame ma molte cose ci sarebbero ancora da dire), esaminiamo quale è la reazione dei servizi privatizzati nei confronti delle emergenze.

Molti si sono spesi sul fatto che, durante la pandemia, solo la sanità pubblica è riuscita a fornire una risposta alla necessità di ricoveri in terapia intensiva, e che per i privati la pandemia è stata solo una occasione di guadagno (scandaloso il costo che hanno raggiunto i tamponi molecolari in alcuni momenti se fatti in strutture private, senza contare le speculazioni sulle mascherine, sui DPI, sui contratti per i vaccini, ecc.). Non ci tornerò.

Ma due parole voglio dirle sulla risposta alla possibile crisi energetica da parte del sistema (del tutto privatizzato come regolamentazione) della acquisizione e distribuzione all’ingrosso dell’energia e del gas.

Attualmente la crisi energetica non esiste, cioè non c’è stata (fino ad oggi, giorno in cui scrivo, 11 aprile) una significativa riduzione delle forniture di gas dalla Russia, non c’è stato fino ad oggi un aumento del prezzo al Kw da parte dei Russi e la minaccia di far pagare le forniture in rubli, sia pure ripetuta, non si è ancora trasformata in operazione concreta.

Eppure, tutti noi sperimentiamo aumenti travolgenti nelle bollette di energia elettrica e gas da almeno due bimestri.

Questo perché (a prescindere dal mix energetico italiano) il costo del gas che paghiamo in fornitura non è il “costo doganale” (cioè quello che ha il gas quando esce dalle condotte provenienti dalla Russia) ma il costo che si registra al TTF (Title Transfer Facility) che “è un mercato di riferimento per lo scambio del gas naturale tra i più grandi e liquidi dell’Europa continentale. Situato nei Paesi Bassi, grazie alla localizzazione centrale permette un trasferimento del gas tra i mercati di Norvegia, Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna.” (definizione tratta dal sito di A2A).

Però il prezzo TTF non è formato sul prezzo doganale con una semplice maggiorazione (come il prezzo di ogni bene sul mercato) cioè il prezzo “on the spot”, ma si basa sulla contrattazione e lo scambio di “futures” cioè di titoli che prevedono quale sarà il prezzo dopo un certo periodo di mesi o giorni.

Ammetto che la mia percezione e conoscenza del fenomeno futures è gravemente carente, dato che l’ultima volta che mi sono occupato di borsa è stato subito dopo l’Università, nel giurassico superiore, e il loro mercato rappresenta una scatola nera ma ho la fondata impressione che questa percezione sia comune non solo a molti connazionali ma anche a tanti “decisori” del nostro paese.

Una cosa però mi è chiara cioè che il prezzo dei futures è il frutto delle aspettative degli operatori e quindi sia fortemente influenzato dalla speculazione.

La cosa importante è che il mercato TTF non è riservato ai soli operatori del settore (cioè a quelli che, in qualche maniera sono coinvolti nella produzione o distribuzione del gas) ma è aperto anche ad operatori finanziari che non hanno alcun ruolo nel mercato concreto dell’energia.

Questo significa che un fondo speculativo può acquistare o vendere futures di gas non in relazione al prezzo di produzione e trasporto ma secondo le sue attese di quanto il gas costerà di qui a “n” mesi. Ecco perché la “bolletta energetica” continua a salire senza un motivo reale perché è basata sulle attese di operatori finanziari e speculatori.

È il classico caso di primato del mercato finanziario sulla politica, sull’economia reale e sugli interessi strategici dei popoli. Per inciso il posizionamento nei Paesi Bassi è sicuramente alla base del rifiuto di quel governo ad ogni ipotesi di fissazione di un prezzo massimo per il gas.

Ora, se il mercato non fosse stato pienamente liberalizzato e se le forniture di gas fossero state gestite dall’Unione Europea e non dal mercato la situazione sarebbe stata, forse, diversa. Questo, a mio parere, fa giustizia del presupposto ideologico che ho citato all’inizio della prima parte di questa serie di articoli cioè che attraverso la concorrenza si possa “contribuire a una maggiore giustizia sociale”.

Ancora più interessante è il fatto che, però, i tre maggiori enti che importano Gas (ENI, Enel e Edison) non acquistano il gas attraverso il mercato TTF ma con “contratti pluriennali (fino a 30 anni), stipulati per garantire gli investimenti di ricerca dei pozzi e la realizzazione dei gasdotti. I relativi prezzi di acquisto sono “blindati” e secretati dallo Stato. Sono comunque espressi in via di larga massima dai prezzi doganali. Una parte minima del gas viene acquistata da questi player sul mercato libero, dove il prezzo corrente (spot) e quello a tre mesi (future) si formano giornalmente. L’importanza per l’Italia del prezzo del gas sul mercato TTF risiede, innanzitutto, nel fatto che il mercato TTF rappresenta, in sostanza, un benchmark – ovvero un mercato di riferimento – anche per il mercato italiano “spot” del gas, noto come Punto di Scambio Virtuale (PSV), in quanto si tratta di un “punto virtuale situato tra i Punti di Entrata e i Punti di Uscita della Rete Nazionale di Gasdotti”. Il risultato è che il prezzo spot del gas nel punto di prelievo italiano (PSV) è, in pratica, sostanzialmente sovrapponibile a quello nel punto di prelievo olandese (TTF) ed a quello nel punto di prelievo del Regno Unito (NBP).” (fonte studio Fondazione Hume, link in calce)

“Occorre poi considerare che la sola ENI – di cui lo Stato è azionista al 30% attraverso Cassa Depositi e Prestiti ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze – importa, secondo ARERA, quasi la metà (precisamente, il 47,6% nel 2020) del gas estero che entra nel mercato italiano. … omissis … Dunque, riassumendo, l’ENI importa circa la metà del gas naturale importato dall’Italia in un anno, e su circa 2/3 di questo gas può lucrare enormi profitti grazie al fatto che il prezzo di riferimento per la sua vendita a terzi (clienti finali e altri fornitori nazionali) è quello spot-PSV (TTF). … omissis … Dunque, ENI lucra da novembre scorso l’enorme differenza tra i prezzi spot incassati dai grossisti a cui rivende il gas ed i prezzi contrattuali pluriennali pagati all’import. Storicamente i prezzi doganali (contratti pluriennali) e quelli spot viaggiavano, da oltre 20 anni, di conserva, con scostamenti minimi.” (idem)

Di conseguenza abbiamo una azienda si stato, privatizzata nell’ordinamento, che specula sui prezzi del gas.

Infine, l’ultima bufala (guarda caso nessun debunker si occupa delle bufale governative) quella secondo cui le privatizzazioni sarebbero volontà dell’Unione europea.

Non solo l’Europa non ha alcun interesse a imporre la privatizzazione dei servizi pubblici ma ha sempre giudicato legittime tutte le forme di gestione anche quella diretta da parte della pubblica amministrazione.

Tant’è che, ad esempio, a Parigi la gestione degli acquedotti è tornata in mano pubblica (vedi link in calce) da oltre dieci anni e ha conseguito forti risparmi e miglioramenti di efficienza e nessuno dall’Unione si è sognato di fare qualche appunto.

Benvenuti, ancora una volta, nel meraviglioso mondo nuovo delle privatizzazioni italiane fatto di profitti privati e perdite pubbliche nonché scelte puramente ideologiche.

Riferimenti

Registrazione integrale del discorso di Noam Chomsky Università di Toronto

Studio della Confartigianato sullo stato degli acquedotti su dati ISTAT 2015

Europa Today su procedura di infrazione UE

Finanza Etica sulla partecipazione assemblea azionisti esercizio 2020

Gruppo ACEA andamento del titolo

Gruppo ACEA composizione del capitale

Studio fondazione Hume sul mercato del Gas naturale

La gestione dell’acqua a Parigi

Foto di angelo luca iannaccone da Pixabay

Di Roberto Del Fiacco

Libero professionista, consulente tributario, esperto nell'economia dei servizi comunali di raccolta rifiuti. Si illude di essere ancora iscritto al Partito Comunista Italiano e alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (quelli veri). E' nato e morirà comunista

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