In questi giorni, ancora qualche giorno fa, è tornata, sebbene di sfuggita, la questione dell’Amnistia di Togliatti del 22 giugno 1946 ai fascisti.

Ne ha accennato Mario Avagliano alla bella trasmissione di Rai Tre “Quante storie” ed Augias, un po’ di più, alla “Torre di Babele” discutendo con Ezio Mauro dei fatti atroci dell’occupazione tedesca di Roma. Bella trasmissione anche questa con il difetto di non aver mai accennato al ruolo nefasto di Pio XII sulla vicenda di via Rasella e delle Fosse Ardeatine. A Rai Tre è stato presentato l’ultimo libro di Avagliano e Marco Palmieri “Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine”.

Ma veniamo all’“Amnistia di Togliatti”.

Per stare ai fatti bisogna ricordare che nella seduta della Camera del 25 febbraio del 1949 Togliatti intervenne per chiarire alcune cose: “Il decreto venne presentato da me in due diversi progetti di gran lunga differenti da quello che in seguito venne approvato e, se mai le disposizioni dell’amnistia risultarono alla fine, come alcuni dicono, inadeguate, difettose, ciò fu dovuto proprio agli interventi di coloro che oggi lo chiamano famigerato e in particolare a agli interventi dell’onorevole Scelba, il quale credo non vorrà negare la realtà dei fatti. Ma questo è un aspetto della questione che io avrei preferito lasciare in disparte perché l’atto in sé […] è un provvedimento giusto e saggio per il momento in cui venne emanato”. Perché “Si trattava, – disse – in secondo luogo di iniziare una larga azione di conquista alla democrazia di uomini, di giovani soprattutto, che noi sappiamo che avevano commesso atti condannabili, ma che avevano però diritto a parecchie attenuanti, soprattutto nel momento in cui si trattava di allargare il più possibile le basi del nuovo stato repubblicano”.

Il decreto era di amnistia ed indulto e riguardava anche le illegalità commesse dai partigiani dopo il 25 aprile 1945.

Esso escludeva all’art. 3 i fascisti “di elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare” o che avevano commesso “fatti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio o saccheggio, ovvero i delitti siano stati compiuti a scopo di lucro”. Nella relazione introduttiva del Guardasigilli Togliatti veniva specificato: «[…] se questa attenuazione della repressione è pienamente giustificata quando trattasi di atti meno gravi, oppure compiuti da persone le quali non erano investite di funzioni elevate, essa non sarebbe ammissibile per i casi più gravi e trattandosi di atti compiuti da persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica, o di comando militare. Se anche a questi casi si fosse estesa la clemenza, grave sarebbe stato il contrasto con la coscienza popolare, e con i principi stessi della equità. Vi è infatti una esigenza non solo giuridica e politica, ma morale, di giustizia, per cui coloro che hanno commesso delitti, la cui traccia è lungi dall’essere stata cancellata, contro il Paese tradito e portato alla rovina, contro le libertà democratiche, contro i loro concittadini, o contro i più elementari doveri della umanità, devono continuare a essere puniti con tutto il rigore della legge. Un disconoscimento di questa esigenza, anziché’ contribuire alla pacificazione, contribuirebbe a rinfocolare odi e rancori, con conseguenze certamente per tutti incresciose.[…]».

Siccome la magistratura gerente l’amnistia e l’indulto era di impronta e cultura fascista cominciò subito a interpretare il provvedimento in senso liberatorio per i fascisti che avevano commesso crimini. Tanto che Togliatti dovette emanare, dopo pochi giorni, una Circolare telegrafica 2 luglio 1946,  n. 9796/110, alle procure generali presso le Corti d’appello, con oggetto «Amnistia per crimini fascisti».

Quesiti qui posti et incidenti provocati in località periferiche da scarcerazioni per amnistia di criminali fascisti – telegrafava – mi inducono ad attirare l’attenzione delle Signorie Loro su necessità che amnistia venga applicata secondo spirito legislatore che volle continuasse azione punitiva contro responsabili fascisti così come dicesi chiaramente in relazione introduttiva. Qualora sorgano in Loro dubbi circa estensione applicazione termini decreto, si orientino secondo categorie per cui in decreto legge luogotenenziale 22 aprile 1945 n. 142 venne stabilita presunzione collaborazionismo. In rimanenti casi dubbi consiglio preferire rinvio a giudizio e conseguente applicazione amnistia da parte autorità giudicante”.

In seguito le cose peggiorarono parecchio. Soprattutto dopo la cacciata dei comunisti e dei socialisti dal governo nel maggio ’47, la vittoria elettorale della Dc nel ’48 e il subentro pieno della “guerra fredda” a livello mondiale.

In sede di riflessione storico-critica su quell’Amnistia rilevo che forse Togliatti non soppesò bene la situazione; l’orientamento della magistratura, la durata della grande alleanza antifascista – il 5 marzo c’era già stato il discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” – in generale il peso della continuità dello Stato monarchico che non era stato smantellato. Per cui l’esclusione dei fascisti che si erano macchiati di crimini efferati forse doveva essere meglio specificata, con paletti giuridici più forti, magari attraverso una casistica dei delitti efferati più dettagliata per non lasciare spazio alle interpretazioni benevole.

Tutte riflessioni critiche legittime e altre se ne possono fare.

La cosa che non si può proprio fare è far risalire a Togliatti tutto quello che avvenne in seguito – il perdono generalizzato anche per i criminali fascisti – sottacendo le responsabilità della magistratura e di chi (la Dc di De Gasperi) governò l’Italia in quegli anni.

Visto l’incombente clima pasquale sarebbe come dire che Cristo è morto di freddo.

Un pensiero su “Cristo non è morto di freddo – L’Amnistia di Togliatti”

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