Potrà sembrare fuori luogo a chi segue il blog dell’Associazione “Parliamo di socialismo” che un aderente proponga un proprio contributo alla discussione con il titolo di un’opera di Thomas Mann, scritta durante il primo conflitto mondiale, nel quale compare il lemma “impolitico”; un’opera, oltretutto, ritenuta, anche dallo stesso autore, a posteriori, antidemocratica e reazionaria. Va subito chiarito che l’impolitico usato nel presente articolo non è un “apolitico”, meno che mai un reazionario o un antidemocratico, ma chi, invece, parla e scrive di politica senza ricorrere alla baldanza dialettica e terminologica del modo corrente di chi parla o scrive di politica, baldanza che, spesso, sconfina nell’arroganza o, peggio, nella prassi del bricolage per cui si ritiene di essere nelle condizioni di cambiare il mondo da soli, nella discutibilissima tendenza a ritenere che ciò significhi salvare la purezza di certe posizioni ideologiche che, al contrario, hanno nella “contaminazione” con le altre la possibilità di emergere nella loro assoluta affermazione, ossia, avrebbe detto Gramsci, divenire egemoniche.

Un giro di presentazioni di tre volumi occasionati dal Centenario della fondazione del Pci ha offerto lo spunto per una riflessione, appunto, impolitica sullo stato attuale della politica. A L’Aquila diversi gruppi, non soltanto politici, hanno organizzato, nella Piazza d’Arti, un evento alla fine dello scorso giugno: ANPI, PRC, FLC-CGIL, Circolo ARCI Querencia, ASSUR (ASsociazione Scuola Università Ricerca), Editori Riuniti, “Futura Umanità. Associazione per la storia e la memoria del Pci”. Uno sforzo notevole che ha portato a seguire l’incontro quaranta fra compagne e compagni, motivatissime/i al punto che gli interventi hanno spesso assunto il carattere di autentici tentativi di dar vita a qualcosa, cioè l’unità della sinistra, a cui si tende senza riuscire a trovare la quadratura del cerchio. La vera nota stonata è stata, ma si tratta di un fatto ormai consolidato seppure non necessariamente scontato, l’assenza dei giovani, di entrambi i generi.

Qualche giorno dopo, ai primi di luglio, nuova presentazione, questa volta a Ladispoli, in occasione della prima Fiera del Libro (Ladispolibri). Amministrazione di destra, invito rivolto all’editore (Editori Riuniti), accettato e girato al curatore dei volumi che, insieme a Guido Liguori (Presidente dell’International Gramsci Society Italia), ha parlato di Pci e di rifondazioni del Partito davanti ad una platea nella quale, questa volta, poteva essere notato qualche volto giovanile, anche interessato; sono state sollecitate risposte a qualche intervento, peraltro non particolarmente polemico, del pubblico.

Lo scenario cambia completamente ad agosto nel borgo di Calascio (AQ), noto per la sua Rocca posta a 1513 m. ove è sito il castello sicuramente più alto d’Italia e, forse, stando alle parole dei calascini, d’Europa. Dalla Piazza d’Arti a L’Aquila, realizzata dal volontariato locale dopo il terremoto del 2009, all’assolata e civettuola piazza Rossellini di Ladispoli, al portico di un convento, peraltro ancora funzionante, in quel di Calascio (organizzatrice la locale Biblioteca con tanto di annuncio su Il Centro, il quotidiano più diffuso in Abruzzo). Luogo di certo più adatto a meditazioni di petrarchesca memoria o a quelle agostiniane su cosa sia il tempo piuttosto che al racconto dell’epoca di ferro e di fuoco della nascita del Pcd’I (ricordiamo che solo dopo lo scioglimento della Terza Internazionale nel 1943 il Pci divenne tale essendo precedentemente Partito comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale), del partito nuovo e della democrazia progressiva con il solito, ormai risaputo, seppure stantio, tentativo, da parte di qualcuno dei presenti, di trasformare l’incontro in uno scontro verbale fuori dalle righe con i continui riferimenti al Togliatti definito “stalinista”. Rispondere con il Togliatti rivoluzionario costituente, uno dei Padri della nostra ancora viva e vegeta Costituzione, non solo è stato quasi automatico ma ha consentito di aprire un ampio sguardo intorno alla lealtà dei comunisti italiani alla Costituzione e alla loro coerenza nel sostenerne la necessità anche dopo l’allontanamento dal governo (maggio 1947) in seguito ad un viaggio di De Gasperi negli Usa (gennaio 1947). E su questa strana coincidenza di fatti e di date (allontanamento delle sinistre dal governo dopo un viaggio del leader democristiano negli Stati Uniti), peraltro, nessuno degli antitogliattiani ha avuto nulla da eccepire (vittoria dello “storicamente corretto” sul “politicamente corretto”). Inoltre, visto il luogo, c’è stato anche chi ha voluto sottolineare la contrapposizione netta fra Chiesa e Pci, ovviamente addebitando a quest’ultimo ogni responsabilità: è stato d’uopo rammentare che fu la Chiesa nel 1949 a scomunicare chiunque professasse il comunismo ateo mentre Togliatti pubblicava, traducendolo e introducendolo, il Trattato sulla tolleranza di Voltaire e sempre il Segretario comunista, il 20 marzo 1963, con il discorso di Bergamo (apparso su Rinascita con il titolo Il destino dell’uomo) diede un impulso decisivo all’apertura verso il mondo cattolico. L’11 aprile Giovanni XXIII, che aveva già avviato il Concilio Vaticano II, promulgava l’enciclica Pacem in terris (quella della distinzione dell’errore dall’errante).

L’ultima presentazione si è svolta, un paio di giorni trascorso il Ferragosto, nel borgo di Collarmele (poco più di 800 abitanti), nella Marsica, uno dei paesi più colpiti dal devastante terremoto del 13 gennaio del 1915. A quella data l’amministrazione di sinistra, guidata da Dario De Luca, nel centenario del sisma, dedicò una piazzetta, bella e suggestiva, e proprio lì si è tenuta, organizzata da “Futura Umanità” e dagli Editori Riuniti, con il supporto logistico dell’Amministrazione Comunale, la presentazione per la riuscita della quale molto si è dovuto ad un gruppo di giovani compagne e giovani compagni di Celano, una delle più importanti cittadine marsicane, che, con la sigla di Unione Popolare, stanno tentando di realizzare un progetto di unità della sinistra facendo confluire nel loro gruppo sia PRC sia Pd. All’incontro ha partecipato l’ex deputato comunista Giancarlo Cantelmi (1926): in carica dal 1976 al 1983, Cantelmi è molto conosciuto nella Marsica, in specie nel Fucino, in quanto è stato uno dei promotori delle lotte dei contadini contro i Torlonia negli anni ’50 del secolo scorso. E proprio di questo ha parlato, emozionando le/i presenti (il pomeriggio freddo e ventoso non ha impedito che ci fossero più di trenta persone sedute e altre in piedi). Cantelmi ha tenuto a sottolineare che senza l’apporto teorico dei dirigenti, autori dei testi di cui si stava parlando (Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer fino a Natta), sarebbe stato molto difficile costruire un movimento veramente rivoluzionario che non è mai arrivato, nella ricerca del riconoscimento dei propri diritti, all’uso della forza e della violenza che, anzi, i contadini marsicani subirono. Nella sostanza, Cantelmi, con la sua testimonianza, ha voluto sostenere che senza cultura politica non c’è possibilità di fare politica, senza formazione politica non si costruiscono movimenti lì dove la società civile è sviluppata, complessa ed articolata come in Italia. Chi ha partecipato, piuttosto preoccupato dalla presenza di un orso marsicano che, nei giorni precedenti, aveva pesantemente colpito molti pollai del paese, credeva che si sarebbe parlato di un altro orso, quello sovietico; invece no! Si è parlato di lotte sociali, di rapporti di forza, di democrazia e di socialismo, dei dirigenti comunisti e delle/dei militanti senza le/i quali il Pci non avrebbe potuto avere nella società italiana il ruolo che ha avuto. Si è parlato, soprattutto, di subalterni, di quegli strati sociali definiti da Gramsci “ai margini della storia” ma che, nella realtà, sono protagonisti della storia, come i contadini del Fucino. Per questo, in conclusione dell’incontro, è stata letta la lettera di Gramsci dal carcere a Delio nella quale il detenuto spiega al figlio lontano il vero significato della storia e quali ne siano i protagonisti:

Carissimo Delio,
mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio

(Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di F. Giasi, Einaudi, Torino, 2020, p. 1069)


Proprio la testimonianza di Cantelmi, legata così a doppia mandata ad un grande movimento popolare rivoluzionario di liberazione (i contadini del Fucino), fa venire in mente una nota dei gramsciani Quaderni del carcere nella quale il nesso dialettico fra dirigenti e diretti, fra governanti e governati è colto nella specificità di una prassi che si realizza nei termini del sentimento che ha il suo quasi naturale obiettivo nel sapere, nella conoscenza:

Passaggio dal sapere al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere. L’elemento popolare «sente», ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale «sa», ma non sempre comprende e specialmente «sente». I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenati. L’errore dell’intellettuale consiste 〈nel credere〉 che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il «sapere»; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (così detto centralismo organico). Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il «blocco storico».

(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, pp. 1505-1506; si tratta del § 67 del Quaderno 11).

Il riferimento di Gramsci alla “vita d’insieme” che è forza sociale creatrice del blocco storico fa venire alla mente la quasi identica affermazione del giovane Marx quando usa l’espressione “das Kommunistische Wesen”, tradotta da Galvano della Volpe con “l’essere in comune”, per caratterizzare la separazione esistente fra lo Stato astratto hegeliano e la società civile come luogo in cui si realizza la comunità all’interno della quale “esiste l’individuo” (K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico in id., Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano della Volpe, Editori Riuniti, Roma 19774, p. 93).

“Essere in comune” marxiano e “vita d’insieme” gramsciana: obiettivi anacronistici nell’epoca della pandemia della separazione e del distanziamento o unica prospettiva di recupero della dimensione umana, solidale ed ecoappartenente, di individui altrimenti destinati all’oblio di se stessi? Con questo interrogativo l’impolitico pone la questione politica, cioè la questione di un nuovo umanesimo con il quale realizzare, proprio in questo terzo millennio, il nesso democrazia-socialismo.

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