quarant’anni fa l’omicidio del dirigente siciliano del Pci che combatteva Cosa nostra. Svelò i legami con la politica e lavorò per introdurre il reato di associazione mafiosa

di Francesco La Licata – “La Stampa” del 30 aprile 2022

Il 30 aprile del 1982 era un venerdì. I palermitani cominciavano a godersi il tepore primaverile che sembrava annunciare una calda estate e si avvicinava una doppia festa: la domenica che coincideva con il primo maggio e la scampagnata, tradizione legata alla Festa del Lavoro. C’era molta gente davanti al bar Santoro di piazza Indipendenza, in attesa di una colazione salata accompagnata dall’ottimo espresso, specialità del bar. Improvvisamente un fiume di gente cominciò a correre verso corso Pisani lasciando confusamente la piazza ma senza sapere bene dove andare. Tutti si chiedevano il perché di quell’arrembaggio ma le risposte si accavallavano incerte e dubbiose. Fino a quando qualcuno gridò: «Ammazzaru a Pio La Torre».

Quelle parole innescarono una scossa elettrica incontrollabile e una rabbia contagiosa. L’affanno lasciò il posto alla commozione dei primi che riuscirono a fermarsi davanti all’auto crivellata. Dal finestrino lato passeggero penzolavano le gambe del dirigente comunista che evidentemente aveva tentato una fuga disperata. Sul sedile accanto, il corpo di Rosario Di Salvo, il fedele compagno che gli faceva da scorta volontaria mascherando quel ruolo con quello di autista.

Lontano dal “burocratese”

Pio La Torre era segretario regionale del Pci nelle terra degli infedeli, per dirla sciascianamente. Era stato il dirigente di un partito dalla storia antica, che per lunghi anni si era trovato faccia a faccia a combattere con un sistema di potere forte e violento e per giunta sorretto da interessi che travalicavano i confini nazionali. E i palermitani amavano quel politico poco incline ai discorsi difficili e al burocratese delle segreterie. Per questo accorsero a migliaia, guidati da un tam tam muto, per rendere omaggio a un combattente che sentivano fraternamente vicino.

Per un giorno intero la città rimase ammutolita, piegata da una ferita dolorosa: un colpo impossibile da metabolizzare velocemente. Un segno di ripresa si registrerà ai funerali, con i centomila siciliani parzialmente “risarciti” dalle parole del presidente Pertini e del segretario Enrico Berlinguer. Una folla di operai, gente semplice e tanti di quegli studenti che La Torre aveva incontrato nelle scuole quando andava a parlare di legalità e di lotta alla mafia, raccontando episodi di vita quotidiana e storie vissute, sin dai tempi dell’epopea della “lotta per la terra”, quando come controparte trovava i mafiosi campieri che alla dialettica preferivano la lupara.

Vicino a Dalla Chiesa

La mafia non amava gli uomini come Pio La Torre. Lui, poi, non aveva mai fatto nulla per sottrarsi al loro odio. Come quando, giovane sindacalista, non esitò a schierarsi apertamente dalla parte del giovane capitano Carlo Alberto dalla Chiesa, allora comandante della Compagnia di Corleone, che contrastava l’incipiente “fortuna” delle cosche corleonesi. E tanto meno gli volevano bene quei boss che avevano intuito quanto pericoloso fosse il lavoro che La Torre aveva svolto in seno alla prima commissione parlamentare antimafia, portando allo scoperto – oltre alla “bassa macelleria”, killer e boss – anche i legami che avvinghiavano la politica e Cosa nostra. Fu quella relazione che svelò, in tempi forse non ancora maturi, l’intrigo che vedeva protagonisti autorevoli esponenti del partito di maggioranza (i Lima, i Gioia, rappresentanti delle correnti di Andreotti e Fanfani) e personaggi impresentabili come quel Vito Ciancimino divenuto poi centro di molte inchieste giudiziarie.

Una guerra feroce

Pio La Torre è stato ucciso nel pieno di una guerra che in Sicilia (e successivamente nel resto del paese) Cosa nostra ha portato avanti con una ferocia inusitata. Quando cadde il dirigente comunista erano già stati decapitati i vertici di parecchie istituzioni: il giudice Terranova, Boris Giuliano, il colonnello Giuseppe Russo, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il procuratore Cosa, i giornalisti Mauro De Mauro e Mario Francese, il capitano Basile e tanti altri in una escalation inarrestabile, in una mattanza che ancora oggi non trova eguali nelle democrazie moderne. E contro il muro di gomma opposto dalla buona società palermitana, Pio opponeva il discorso spoglio e concreto di un politico poco rassegnato al quieto vivere. Per questa sua incrollabile concretezza, lontana dagli eufemismi autoassolutori della politica “alta” forse non veniva percepito come “del tutto affidabile”. Raccontava il maestro Camilleri che una parte del suo stesso partito lo liquidava come “politico rozzo”.

La confisca dei beni

Questo non vuol dire, però, che fosse isolato – come qualcuno ha sostenuto – fino ad essere offerto alle attenzioni di Cosa nostra. Questa tesi servì solo ad insinuare, nella rosa dei possibili moventi del suo assassinio, la cosiddetta “pista interna al Pci” che non trovò mai riscontri né investigativi né giudiziari. L’assassinio di La Torre è un omicidio di mafia, di “alta” mafia. Qualcuno ha spiegato ai macellai di Cosa nostra quanto esplosiva potesse risultare la proposta di introdurre nel codice penale il reato di associazione mafiosa con la conseguente “complicazione” del sequestro dei beni di illecita provenienza. E quali interessi internazionali andasse a ledere la “campagna di Sigonella” e l’opposizione alla Nato. Già, il sequestro dei beni mafiosi divenuto legge sull’onda del clamore seguito al 30 aprile del 1982. Clamore che non ha fermato la mattanza siciliana, ripresa nel settembre dello stesso anno con l’assassinio del vecchio amico di Pio, Carlo Alberto dalla Chiesa e sfociata nello stragismo degli anni successivi.

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