(prima parte)

In occasione del 55° anniversario dell’assassinio di Ernesto Che Guevara.

Quanto segue è l’introduzione al volume “Che Guevara chi? Dicono di lui”, edito da Bordeaux nel 2018, che contiene scritti sul Che di Italo Calvino, Ernesto Guevara Lynch, Eric J. Hobsbawm, Pietro Ingrao, Michael Löwy, Roberto Massari, Ernesto Sábato, Antonio Santucci, José Saramago, Adriano Sofri, Mario Spinella, Paco Igancio Taibo ii, Saverio Tutino.

Lo scritto è diviso in tre parti, le successive usciranno su questo blog domani 10 ottobre e dopodomani 11 ottobre.

I

Il modo migliore per impadronirsi del pensiero di un qualsiasi protagonista della storia è sempre quello di studiarlo e di penetrarne le pieghe più intime alla ricerca delle motivazioni più autentiche che lo spinsero ad agire in un determinato modo. Indubbiamente la figura di Ernesto “Che” Guevara risente molto del romanticismo di cui è stata ammantata e di quell’aura di laica santità costruita intorno ad essa; questo ha determinato una mitizzazione del personaggio (soprattutto in relazione alle vicende che lo condussero alla morte) che non ha consentito, molto spesso, di coglierne fino in fondo le peculiarità teoriche. Ancora oggi il “Che” è visto per lo più come un rivoluzionario sempre in armi, una sorta di avventuriero spinto ad operare le sue scelte politiche più in virtù delle esperienze giovanili di viaggio che in conseguenza dell’acquisizione di un solido bagaglio teorico; e, tutto sommato, è lo stesso “Che” che, scrivendo alla madre (10 maggio 1954), le ricorda che in lui lottano due Io: “il socialista e il viaggiatore”. Ma basta questo per dimenticare lo studio coerente ed onesto da lui attivato per arrivare alla conoscenza del marxismo senza la quale le sue iniziative correrebbero il rischio di essere lette, come peraltro è accaduto frequentemente, come le istintive azioni di un uomo del tutto insofferente a qualsiasi tipo di organizzazione? E’ nota la risposta: Guevara è colui che definì la Rivoluzione cubana “la prima genuina creazione dell’improvvisazione… il caos più perfettamente organizzato dell’universo”[1]; ma è anche vero che già negli anni del Guatemala di Arbenz (1954) il “Che” parlava di un’adesione ideale al marxismo che divenne accettazione totale, dal punto di vista teorico e pratico, con l’esperienza cubana. D’altronde è lo stesso “Che” a ricordare in una lettera alla madre:

Prima mi dedicavo più male che bene alla medicina e il tempo libero lo dedicavo allo studio non organico di San Carlos. La nuova fase della mia vita esige anche un mutamento di organizzazione: ora San Carlos è al primo posto, è il centro, e lo sarà per gli anni in cui lo sferoide mi ammetterà nella sua fascia più esterna[2].

San Carlos è Marx. Quindi, quando gli occupanti del “Granma” sbarcarono sulle spiagge cubane nel dicembre del 1956, Guevara, non ancora Comandante ma soltanto medico del gruppo, era l’unico che poteva, a buon diritto, autodefinirsi marxista[3].

Quando comincia a scrivere di marxismo, dopo la vittoria della Rivoluzione ed incaricato del ruolo di Ministro dell’Industria, lo fa avendo in mente la vulgata marxista di derivazione staliniana. I viaggi nell’Est europeo, la conoscenza di quelle realtà, lo studio del giovane Marx e della Critica del programma di Gotha gli consentono di sviluppare un punto di vista che va progressivamente sottraendosi allo schematismo staliniano, com’è evidente nell’articolo del 1964 Sul sistema di finanziamento del bilancio, e, ancora di più, in quello che è considerato il testamento filosofico di Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba del 1965. Qui vengono a piena maturazione gli studi svolti insieme alle esperienze esistenziali del combattente e dell’uomo nonché il risultato del progressivo, ma deciso, abbandono di qualsivoglia legame con il socialismo reale; l’utopia si riempie di un contenuto concreto fornito dall’etica come disciplina e come coerenza nelle scelte e nell’azione da intraprendere.

Perciò lo studio del marxismo fornì a Guevara gli strumenti adatti per lo svolgimento della sua battaglia politica; ma ciò non è sufficiente per definire in modo compiuto il profilo del grande rivoluzionario; mancano ancora due elementi: l’impegno politico dell’intellettuale e il tema della verità.

La domanda di partenza, a proposito del primo elemento, è semplice: chi è l’intellettuale? Chiunque operi tenendo presenti, contemporaneamente, il patrimonio culturale accumulato dall’umanità e quello che un popolo ha maturato in una certa fase del suo sviluppo. Ciò comporta un impegno che esclude qualsiasi fuga nell’apoliticità:

Essere apolitico è dare le spalle a tutti i movimenti del mondo, è voltare le spalle a chi sta per assumere la presidenza o essere nominato capo di una qualsiasi nazione, è voltare le spalle alla costruzione della società o alla lotta per impedire l’avvento della nuova società che sta per nascere, ma in ognuno dei casi si è politici[4].

E poi, quasi riprendendo Aristotele, Guevara aggiunge:

Un uomo nella società moderna è politico per natura … La cultura è qualcosa che appartiene al mondo, è forse come il linguaggio, qualcosa che appartiene alla specie umana[5].

Quindi, Guevara propone un avanzamento verso la liberazione dell’uomo che sortisca, in termini strettamente marxiani, dal carattere sociale del lavoro ma trovi uno specifico sviluppo attraverso “l’espressione della propria condizione d’uomo, attraverso la cultura e l’arte”[6]. Cultura ed arte, perciò, sono alla base del processo di liberazione dell’uomo, soprattutto dei subalterni, ossia di coloro che vivono la loro umanità in condizioni di sottomissione economica e politica alle forme affermate del potere ma, spesso, nell’inconsapevolezza di una sottomissione che passa dall’elemento economico-corporativo a quello etico-politico. In questo senso è possibile avvicinare il pensiero di Guevara a quello di Gramsci e tentare le impervie strade, fatte di indizi e di supposizioni, alla scoperta di quanto del secondo fosse nel primo, o meglio, quanto il primo conoscesse del secondo.

II

Si partirebbe da molto lontano se si iniziasse a rispondere alla questione prendendo le mosse dalle modalità di diffusione del marxismo in America Latina agli inizi del XX secolo anche perché non sembra che questo processo di penetrazione e i suoi esiti abbiano in qualche modo influito sulla formazione culturale di Guevara[7]. Si può dire che la prima vera formazione culturale, nel senso ampio del termine, ossia comprendente anche la politica, del giovane Guevara trova la sua origine nel viaggio attraverso l’America Latina con il suo amico Alberto Granado e nella sua adesione, in quanto studente universitario, alle correnti più radicali che invocano l’applicazione della riforma universitaria di Cordoba del 1918; questo sembra essere all’inizio il movimento dell’avvicinamento guevariano alla sinistra. Siamo, comunque, in presenza di motivazioni facilmente riconducibili al romanticismo e ad un’assunzione di appartenenza non ancora teorica o filosofica.

Indaghiamo, invece, il versante più propriamente teorico delle acquisizioni politico-rivoluzionarie di Guevara per scoprire i nessi con la marx-gramsciana filosofia della prassi a partire da semplici indizi ponendo il quesito: può Guevara essere entrato in contatto, se non proprio con le opere di Gramsci, almeno con un “sentito” gramsciano?[8]

Nel 1947 (Gramsci era morto dieci anni prima) lo scrittore argentino Ernesto Sabato pubblicava nel numero 6 di settembre della rivista “Realidad”, con il titolo Epistolario de Gramsci, una recensione delle Lettere dal carcere[9]. Sabato (ideologicamente vicino all’anarchia) frequentava la famiglia di Guevara e uno dei maggiori biografi del “Che” scrive: “Si sa soltanto che Ernesto Guevara non perse i contatti con Sabato”[10]. Infatti il 12 aprile del 1960 invia una lettera a Sabato nella quale, rivendicando la sua origine argentina e la particolarità della rivoluzione cubana quale “genuina creazione dell’improvvisazione”[11], conclude con parole che rimandano al concetto gramsciano di “filosofo”[12]:

Questa lettera è stata un po’ lunga e non è priva di quella piccola quantità di posa che alla gente semplice come noi impone, tuttavia, il cercare di dimostrare di fronte a un pensatore che siamo anche quello che non siamo: dei pensatori[13].

È possibile ritenere che una così lunga frequentazione con il primo recensore delle lettere carcerarie gramsciane in America Latina non abbia prodotto qualche riferimento, qualche allusione al comunista italiano?

Altro indizio: Anìbal Ponce (1898-1938), marxista argentino, autore di Humanismo burgués y humanismo proletario (1935), testo che proprio Guevara contribuì a far ripubblicare a Cuba nel 1962, divenne fonte di ispirazione di quel gruppo di intellettuali comunisti argentini che, preceduti all’inizio degli anni Cinquanta da Héctor Agosti[14], scoprirono, tradussero e pubblicarono, a partire dal 1958, l’edizione tematica dei Quaderni del carcere. La strada indicata da Ponce conduceva alla scoperta dell’umanismo marxista distinguendolo da quello regressivo borghese; momento centrale dell’umanismo marxista è di certo l’unità della teoria e della prassi, così come Marx la descriveva nelle Tesi su Feuerbach, così come Guevara la realizzava nel suo umanismo rivoluzionario molto prossimo a quello gramsciano.

In ultimo un ulteriore indizio che, però, sembra essere quasi una prova: l’opera del marxista peruviano José Carlos Mariàtegui (1894-1930) il quale, più che leggere Gramsci, con lui si identificava spiritualmente pervenendo “a un quasi identico comportamento intellettuale”:

In un tal parallelo, non solo stupisce la similarità delle loro forme di pensiero, ma anche la somiglianza delle loro imprese, il fatto che abbiano adottato la stessa maniera di intervenire nella politica, l’importanza che ciascuno diede alla cultura. Forse si conobbero: i biografi del periodo italiano di Mariategui attestano la presenza del peruviano al congresso di Livorno, al quale Gramsci prese parte[15].

Quindi non è certo che i due si conobbero ma è certo che il marxista peruviano fu uno dei primi intellettuali sudamericani, se non il primo in assoluto, a citare Gramsci e a farlo conoscere nell’America del Sud; infatti in un articolo da Roma del giugno del 1921, pubblicato a Lima il 10 del mese successivo, scriveva:

L’Ordine Nuovo es el diario del Partido Co­munista. Está dirigido por dos de los más no­tables intelectuales del partido: Terracini y Gramsci[16].

Nel corso del suo viaggio in motocicletta attraverso l’America meridionale con l’amico Granado, Guevara si fermò in Perù (maggio 1952) dove incontrò il leprologo Hugo Pesce, di origini italiane, il quale, dopo essersi laureato in medicina in Italia, tornato in patria era diventato un discepolo di Mariàtegui

il cui pionieristico volume Sette saggi di interpretazione della società peruviana aveva esaltato il potenziale rivoluzionario degli indios e dei contadini diseredati dell’America latina. Dopo la morte di Mariàtegui, nel 1930, Pesce era rimasto nelle file del Partito comunista, di cui era uno degli esponenti più autorevoli, proseguendo intanto la sua carriera medica[17].

L’influenza di Pesce sulla presa di coscienza di Guevara fu tale che, dieci anni dopo, inviandogli il suo primo libro, La guerra di guerriglia, l’ormai Comandante scriveva la dedica seguente:

Al dottor Hugo Pesce che, forse senza saperlo, ha cambiato profondamente il mio atteggiamento verso la vita e la società. Lo spirito di avventura è quello di sempre, ma ora è incanalato verso obiettivi più vicini ai problemi dell’America[18].

Guevara può aver incrociato il pensiero di Gramsci durante le conversazioni con il suo amico medico? In viaggio per l’Italia nel cinquantesimo anniversario della morte di Guevara, Aleida, la figlia, ha sostenuto che il padre avrebbe letto Gramsci in Perù, ossia durante il soggiorno presso Pesce. All’epoca, come già scritto, esisteva già la traduzione in spagnolo delle Lettere dal carcere e, cosa ancora più rilevante dal punto di vista della conoscenza, è facile supporre che Mariàtegui avesse portato con sé dall’Italia articoli dell’”Ordine Nuovo”.

Un’altra figura che potrebbe aver suggerito a Guevara indicazioni circa Gramsci è quella di Hilda Gadea, la sua compagna, peruviana e militante dell’Alleanza popolare rivoluzionaria americana (APRA), “con la quale Ernesto trascorreva ore a discutere di quei libri [Marx, Lenin, Engels e Mariàtegui] e delle questioni che sollevavano”[19], in specie durante il periodo trascorso nel Guatemala di Arbenz.

III

Dagli indizi e dalle supposizioni al concreto: si ponga, per Guevara e Gramsci, un elemento comune di conoscenza, ossia Karl Marx, a partire da un passaggio di uno scritto di Guevara del 1960:

 Il merito di Marx è di aver prodotto di colpo nella storia del pensiero sociale un cambiamento qualitativo; interpreta la storia, ne comprende la dinamica, prevede gli eventi futuri, ma va al di là della previsione, oltre i limiti del proprio dovere di scienziato, esprimendo un concetto rivoluzionario: non ci si deve limitare ad interpretare la natura, bisogna trasformarla[20].

Soprattutto la parte conclusiva della citazione rimanda, in modo abbastanza esplicito, ad un luogo noto dell’opera del pensatore di Treviri, ossia le Tesi su Feuerbach del 1845. Fra le letture marxiane di Guevara compaiono sia Manoscritti economico-filosofici del 1844 sia le Tesi su Feuerbach del 1845[21]. La citazione riprende in modo chiaro la XI Tesi. Ripercorriamo il testo di Marx che è uno dei testi più brevi, o meno ponderosi, della tradizione filosofica ed è composto di due pagine e mezzo, 65 righe distribuite in 11 Tesi la più lunga delle quali (la prima) è di 13 righe e la più breve (l’undicesima) è di una riga e mezzo: il testo fu pubblicato da Engels nel 1888 in appendice al volume Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca[22].

A dispetto della loro brevità, nelle Tesi vengono affrontati diversi problemi (il materialismo e l’idealismo, Hegel e Feuerbach, l’alienazione e la prassi, il conservatorismo e la rivoluzione) al punto che non è fuori luogo sostenere che esse costituiscano un’autobiografia intellettuale di Marx proprio perché attraverso esse si segue il percorso da lui intrapreso per giungere alla formulazione di quella specie di parola d’ordine contenuta nell’XI Tesi che recita nel modo seguente: “I filosofi finora hanno interpretato in modo diverso il mondo, quello che conta è cambiarlo”; si tratta di assegnare un compito nuovo, rivoluzionario alla filosofia. Come fa Marx a passare dalla filosofia come pura e semplice speculazione alla filosofia intesa come fonte del cambiamento, della rivoluzione?

Già nella prima Tesi è apertamente dichiarato il nuovo punto di vista quando si parla di “attività rivoluzionaria, attività praticamente critica”; se c’è qualcosa di estraneo alla tradizione filosofica è il concetto di rivoluzione. Secondo Marx alcuni filosofi che lo hanno preceduto (Kant e Feuerbach, ad esempio) sono stati critici, ma non critici nel senso pratico, ossia nel senso di tradurre la critica in attività pratica; soltanto l’attività pratica è rivoluzionaria in senso rigoroso in quanto impone un programma che non abbia come suo oggetto specifico la critica delle astrazioni: “In realtà, per il materialista pratico, per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di metter mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo”[23]. Il concetto di “praticamente critico” corrisponde a quello di “praticamente rivoluzionario” e, presi nell’insieme, costituiscono la base della critica della filosofia intesa come speculazione o metafisica. Quindi la domanda intorno al fondamento filosofico della rivoluzione può essere formulata nei termini delle modalità di raggiungimento di un’attività intesa come materialismo pratico. La risposta si trova nelle Tesi VIII, IX e X.

Tesi VIII: “Ogni vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che spingono la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella pratica umana e nella comprensione di questa pratica”.

Tesi IX: “Il culmine cui giunge il materialismo intuitivo, cioè il materialismo che non concepisce la sensibilità come attività pratica, è l’intuizione degli individui singoli e della società civile–borghese”.

Tesi X: “Il punto di vista del vecchio materialismo è la società civile–borghese, il punto di vista del nuovo, la società umana o l’umanità sociale”.

Nell’ottava Tesi sono presenti alcuni elementi che costituiscono l’aspetto caratteristico del concetto marxiano di prassi: il suo carattere sociale, la sua peculiarità nel nesso teoria–prassi, la natura della sua razionalità.

a)  Il carattere sociale. “Ogni vita sociale è essenzialmente pratica”; in questo modo Marx imposta l’associazione fra sociale e pratico. Nelle Tesi precedenti o si parlava di prassi senza riferimento al sociale o si parlava di sociale senza riferimento al a prassi. Nell’ottava Tesi, invece, è posto l’accento sul fondamento sociale dell’attività umana, sul fatto che tutte le sue manifestazioni sono sociali, appartengono ad un’attività che, essendo esercitata dall’uomo, è pratica. In sostanza, anche la forma più apparentemente privata e individuale della nostra esistenza è in realtà sociale perché sottoposta alle condizioni create dal lavoro di generazioni di uomini, dai loro commerci, dai loro scambi, dai loro modi di vivere e di riprodursi, di sentire e di parlare.

b)  Il nesso teoria–prassi. La teoria, attraverso i misteri, perviene al misticismo; questo fatto è reso possibile da due errori fondamentali: 1) la teoria non comprende la natura della vita sociale; 2) la teoria persiste a tal punto nell’incomprensione che si preclude qualsiasi strada per scoprire la vita sociale. In sintesi, si parte dalla convinzione che siamo noi ad ingannarci sulla realtà per arrivare alla conclusione che sia la realtà ad ingannare noi; in questo modo vediamo ovunque dei misteri e diventiamo dei mistici proprio come Feuerbach, il primo, comunque, a dimostrare il fondamento speculativo e mistico della filosofia. Questa deriva mistica conduce difilato all’ideologia che si fonda sulle illusioni, sui misteri, sui segreti, sulle mistificazioni, sui feticci, sui trucchi, sui fantasmi e sugli spettri. Di questo misticismo, che nulla spartisce con la teoria, si è nutrita, secondo Marx, tutta la filosofia a lui precedente, tutta la presunta teoria a lui precedente; la teoria come la intende Marx è conoscenza oggettiva che ha, come recita la  Tesi  VIII,  la  pratica  umana,  la prassi quale sua origine e suo oggetto.

c)  La nuova razionalità della prassi. Essa consiste nello stretto legame che si stabilisce fra teoria e prassi, anzi è proprio questa nuova razionalità che lega la teoria alla prassi. Al di sotto dei misteri richiamati nell’ottava Tesi, la teoria mette a nudo contraddizioni che risolve praticamente. Per esemplificare, riassumendo le parole di Marx, la coscienza è un prodotto sociale che esiste da quando l’uomo è comparso sulla terra; eppure gli uomini non si pongono che quei problemi a cui possono trovare una soluzione. Il nesso fra teoria e prassi è posto nei termini della mediazione dalla quale scaturisce il processo della conoscenza. Ancora più chiaramente Marx afferma che l’uomo deve appropriarsi del concreto per riprodurlo “sotto la forma del concreto pensato” o “del procedimento del pensiero astratto, che si eleva dal semplice al concreto” e “riflette così il processo storico reale”. In questo modo il rapporto tradizionale fra teoria e prassi è completamente sconvolto in quanto la prassi non è più semplice riduzione al puro fare empirico, quotidiano e contingente a cui la teoria dovrebbe rapportarsi; essa è la produzione materiale da parte degli uomini della loro esistenza, del loro pensiero; è storia reale. La teoria non è più speculazione, non è più misticismo; nasce con la prassi e con essa interagisce.

A questo punto la questione è la seguente: cosa fa Marx di diverso rispetto a tutti quei pensatori, da Platone a Cartesio fino a Kant e Hegel, che si sono posti il problema del nesso fra la teoria e la prassi e della realizzazione della prima nella seconda? A prima vista nulla, se si ritiene che la prassi sia estranea ai rapporti sociali; ma poiché per Marx non è così, in quanto la pratica e i rapporti sociali sono la stessa cosa, allora una differenza c’è: la prassi non è più la pura e semplice applicazione della teoria, ma essa è inseparabile dalla teoria, fa parte di quello stesso processo all’interno del quale teoria e prassi erano stati sempre considerati come elementi distanti e differenti.

Attraverso la distinzione di vecchio e nuovo materialismo, operata nelle Tesi IX e X, Marx procede ad un ulteriore chiarimento del concetto di prassi qual era stato descritto nella Tesi appena presa in esame.

Nella Tesi IX Marx specifica i soggetti dell’intuizione, che coniuga sensibilità e attività pratica, individuandoli negli individui singoli che si muovono nella società civile–borghese. Tali individui, atomizzati e separati, vivono nella sempiterna ambiguità di essere membri della società e, ad un tempo, base di uno Stato che è espressione del dominio della borghesia; questa ambiguità è il risultato del vecchio materialismo che, non cogliendo le condizioni materiali della società civile–borghese, si ferma ad una sua rappresentazione ideologica. Compito del nuovo materialismo è svelare il mistero del dominio borghese: i lavoratori che, mentre producono, diventano essi stessi delle merci; il lavoro alienato che rende l’uomo estraneo a sé stesso e alla natura; il capitale che è l’esistenza del lavoratore, un’esistenza però astratta, non autentica; la vita che, nella realtà, è la vita della proprietà. Questa, secondo Marx, è la realtà che viene svelata dal nuovo materialismo, il cui obiettivo è la società umana o l’umanità sociale (Tesi X) in cui si realizzi la reciprocità e l’identità di umano e sociale.

Il nuovo materialismo dà vita a quel movimento pratico che, dopo aver analizzato le condizioni reali, le rivoluziona nel mentre lotta contro il dominio della borghesia; è un movimento pratico in quanto, attraverso la prassi rivoluzionaria, crea l’accordo fra la coscienza degli uomini e il loro essere sociale; questo movimento pratico è il comunismo che, pur non essendo mai esplicitamente menzionato nelle Tesi, è chiaramente sottinteso nell’undicesima dove dall’interpretazione del mondo, appannaggio della teoria puramente critica e del vecchio materialismo, si passa al suo cambiamento, appannaggio della teoria critico–pratica e del nuovo materialismo.

Da parte sua, Gramsci riconduce il testo di Marx al suo motivo originario, ossia trasformare la filosofia in politica per rendere la filosofia quello che essa deve autenticamente essere, ossia l’origine dell’unità di teoria e pratica. Infatti, dopo aver riportato un passaggio dalle hegeliane Lezioni di storia della filosofia, Gramsci ad esso fa riferimento quando ne sottolinea l’importanza

come «fonte» del pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta ora di mutarlo, cioè che la filosofia deve diventare «politica», «pratica», per continuare ad essere filosofia: la «fonte» per la teoria dell’unità di teoria e di pratica… (Q8, 208, 1066,Testo A)[24].

Ancora più evidente è la torsione in senso «pratico», ossia politico, che Gramsci attribuisce alle Tesi marxiane nella seconda stesura della stessa nota in cui si legge che “la filosofiadeve diventare politica per inverarsi, per continuare ad essere filosofia, che la «tranquillateoria» deve essere «eseguita praticamente», deve farsi «realtà effettuale»” e porsi “infine come elemento per la teoria dell’unità di teoria e di pratica” (Q11, 49, 1472, Testo C).


[1] Ernesto Che Guevara, Scritti scelti, a cura di R. Massari, erre emme, Roma 1993, v. II, pp. 395-396. Si tratta della lettera allo scrittore Ernesto Sabato del 12 aprile del 1960.

[2] La lettera è citata in R. Massari, Che Guevara. Pensiero e politica dell’utopia, erre emme, Roma 1993, pp. 93-94.

[3] La certa frequentazione di Guevara con gli scritti marxisti, intendendo con ciò Marx, Engels e anche lo stesso Lenin, già alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso è confermata dalla lettura degli Apuntes filosóficos (Editorial de Ciencias sociales, La Habana 2013) nella cui prima parte, che si riferisce al periodo 1954-1956 ed intitolata Lecturas de juventud (pp. 27-124), sono riportate tutte le note e gli appunti che il “Che” scriveva nel mentre leggeva e studiava. Le letture dei classici del marxismo e sui classici del marxismo sono predominanti.

[4] Ernesto Che Guevara, Questa è una generazione di sacrificio, Intervento alla cerimonia di chiusura del I Incontro internazionale dei professori e degli studenti di architettura, il 29 settembre 1963, in ID., Opere. Nella fucina del socialismo, Feltrinelli, Milano 1969, v. III/2, p. 102.

[5] Ibidem.

[6] Ernesto Che Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, (El socialismo y el hombre a Cuba, in “Marcha”, Montevideo, 12 marzo 1965 e in “Verde Olivo”, aprile 1965). L’articolo, in forma di lettera, è indirizzato al giornalista Carlos Quijano (direttore del settimanale uruguaiano “Marcha”) in ID., Scritti scelti, a cura di R. Massari, erre emme, Roma 1993, v. 2, p. 704.

[7] Rivelatore di ciò può anche essere il fatto che Guevara lesse per la prima volta Il Capitale nella traduzione di Wenceslao Roces pubblicata in Messico e non nella prima traduzione in castigliano risalente al 1898 e opera di Juan Bautista Justo, uno dei leader del movimento operaio argentino.

[8] Quanto segue nell’Introduzione a proposito del nesso Guevara-Gramsci è il frutto della rielaborazione anche delle letture di alcuni intellettuali sudamericani che al tema si sono dedicati; fra essi va ricordato il cileno Jaime Massardo, peraltro uno dei due traduttori, per la Lom Ediciones di Santiago del Cile, del volume di Antonio A. Santucci, Gramsci, Newton Compton, Roma 1996. Il primo capitolo del libro di Santucci è ora in Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937, a cura di L. La Porta, premessa di Eric J. Hobsbawm, con una nota di Joseph A. Buttigieg, Sellerio editore, Palermo 20172, pp. 169-183.

[9] Le Lettere dal carcere furono pubblicate dall’editore Einaudi nel 1947 ed ottennero il Premio Viareggio con voto unanime della giuria, presieduta da Leonida Répaci; la motivazione dell’assegnazione del premio a Gramsci che concorreva con Moravia, Berto, Pavese, Ginsburg Natalia, Quasimodo e Luzi: “La condizione umana non ha avuto in questi tempi confusi un più lucido assertore e testimone”. Le Lettere dal carcere in traduzione saranno pubblicate dall’Editore Lautario a Buenos Aires nel 1950.

[10] P. Kalfon, Il Che. Una leggenda del secolo, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 44.

[11] Cfr. nota 1.

[12] “Occorre distruggere il pregiudizio che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è una attività propria di una determinata categoria di scienziati, dei filosofi professionali o sistematici. Occorrerà pertanto dimostrare che tutti gli uomini sono filosofi…” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., Q8, 204, 1063).

[13] Ernesto Che Guevara, Opere. Nella fucina del socialismo, cit., v. III/2, p. 483; anche in E. Che Guevara, Scritti scelti, cit., v. II, p. 399.

[14] H. Agosti, Noticia sobre Antonio Gramsci, “Cuadernos de cultura”, 9-10/1953, pp. 38-41. Si tratta della nota introduttiva alla pubblicazione in spagnolo della conferenza sull’antifascismo di Gramsci tenuta da Togliatti a Bari il 23 marzo del 1952 e pubblicata sul n.3 di “Rinascita” dello stesso anno.

[15] O. Fernandez Dìaz, In America Latina in E. Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, a cura di Antonio A. Santucci, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 141.

[16] J. C. Mariategui, La prensa italiana in “El Tiempo”, Lima, 10 luglio 1921; trad. it. in J. C. Mariategui, Lettere dall’Italia e altri scritti, a cura di I. Delogu, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 56: “L’Ordine nuovo è il quotidiano del Partito comunista. E’ diretto da due dei più notevoli intellettuali del partito: Terracini e Gramsci”.

[17] Jon Lee Anderson, Che. Una vita rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano, 20172, p. 102.

[18] Ivi, p. 103.

[19] Ivi, p. 155.

[20] E. Che Guevara, Note per lo studio dell’ideologia della rivoluzione cubana, (Notas para el estudio de la ideologìa de la revoluciòn cubana, in “Verde Olivo”, n. 30, ottobre 1960) in ID., Ivi, p. 403.

[21] Negli Apuntes filosóficos (cit.) compare la trascrizione di passi delle due opere di Marx tratti dalle Obras escogidas in tres tomos di Marx-Engels (Editora Política, La Habana 1963, pp. 192-194), per quel che concerne le Tesi su Feuerbach, e dai Manuscritos Económicos y Filosóficos de 1844 di Marx (Editora Política, La Habana 1965, pp. 208-212), per quel che concerne i Manoscritti economico-filosofici del 1844. Nello specifico, Guevara, delle Tesi su Feuerbach, appunta la prima, la seconda, la quarta, la quinta, la nona, la decima e l’undicesima. Fra la trascrizione della seconda tesi e quella della quarta, commenta nel modo seguente in una nota che, nell’originale, compare fra parentesi quadre di colore rosso: “La pratica si può riflettere soltanto dentro determinati limiti per i quali esiste la verità, ci sono però quelli più lontani dove può non essere reale. La pratica è una sanzione della teoria storicamente passata, nei tempi moderni, anche se quella teoria fosse nata da una pratica anteriore”. Guevara sottolinea come teoria e prassi si integrino al punto che si può parlare della teoria dell’unità di teoria e prassi e della prassi dell’unità di teoria e prassi. La verità del pensiero è nel suo potere di essere tale, cioè pensiero, e perciò capace di trasformare la realtà.

[22] Traduzione italiana di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1972.

[23] Marx–Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 15.

[24] I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci saranno citati dall’edizione critica curata da V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, indicando il Quaderno, la nota e la pagina. La suddivisione delle note carcerarie in A, B, C indica con la lettera A le note di prima stesura, con la B quelle di stesura unica e con la C le note di seconda stesura.

Foto di Edvard-Grieg da Pixabay

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