Ormai ad ogni anniversario storico il mainstream della politicuccia italiana non fa mai i conti con la storia reale di come certe conquiste furono raggiunte, con quali tattiche e scelte strategiche delle forze in campo. Per cui ne viene fuori uno stravolgimento dei fatti e l’assunzione ad eroi di certe forze e certi personaggi allora poco significativi benché assai rumorosi. Il caso del cinquantenario del referendum sul divorzio è un caso di scuola di questo andazzo.

I fatti, però, sono duri a morire e sebbene possano essere stravolti a piacimento non possono essere occultati.

La legge Fortuna-Baslini che istituiva il divorzio in Italia fu varata dal parlamento italiano nel dicembre del 1970. In quel parlamento non c’erano i radicali, né in quello dopo scaturito dalle elezioni del 1972. La legge fu approvata con 319 voti da tutti i partiti laici: Pci, Psiup, Psi, Psu (socialdemocratici), Pri, Pli. Contro con 286 voti votarono Dc, Msi, Pdium (monarchici), Sudtiroler volkspartei.

Sulla vittoria del NO al referendum pesò il fatto, innanzitutto, che la legge era in vigore da tre anni e mezzo e non aveva creato alcun sconquasso mentre aveva sanato molte separazioni di fatto dando legalità alle nuove famiglie che ne erano scaturite e ai figli che da quelle unioni di fatto erano nati.

Poi il carattere laico e di libertà che fu impresso alla campagna elettorale grazie innanzitutto al Pci di Berlinguer che delegò Paolo Bufalini a seguire la patata bollente rifiutando recisamente il laicismo radicale e pannelliano. A questa libertà e laicità si attennero anche gli altri partiti laici, venuti al dunque dello scontro con l’integralismo fanfaniano che aveva trascinato la Dc su quel terreno di contrapposizione al seguito del comitato sanfedista di Gabrio Lombardi che aveva raccolto oltre un milione e 300 mila firme per l’effettuazione del referendum. E fu questo carattere che favorì il dissenso di milioni di elettori cattolici e di esponenti di grande levatura del mondo cattolico laico come Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle e Romano Prodi, Pierre Carniti (allora nella segreteria della Cisl), Giancarlo Zizola, Leopoldo Elia, Adriana Zarri, Carlo Bo, Paolo Brezzi, David Maria Turoldo.

Che cosa pensassero del divorzio in quel frangente storico i comunisti italiani lo disse bene Nilde Iotti alla Camera il 25 novembre 1969. “Vedete, onorevoli colleghi: per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna – in ogni tempo, ma soprattutto direi, nel mondo di oggi – essi possono anche mutare; e quando non esistono più i sentimenti, non esiste neppure più, per le ragioni prima illustrate, il fondamento morale su cui si basa la vita familiare. Abbiamo dunque bisogno di ammettere la possibilità della separazione e dello scioglimento del matrimonio. (…) Aggiungo, infine, onorevoli colleghi, che la condizione dei figli in una famiglia tenuta insieme per forza, in una famiglia dove la violenza o, peggio – dico peggio – l’indifferenza sono alla base dei rapporti dei coniugi, è la peggiore possibile, e causa la devastazione della loro personalità”.

In questi anni il mainstream italiota di impronta radicale ha imputato al Pci di Berlinguer la sua eccessiva prudenza derivante essenzialmente dalle preoccupazioni per i rapporti con il mondo cattolico fatto di milioni di elettori. Berlinguer aveva lanciato da poco il “nuovo grande compromesso storico” che non era un inciucio ma una strategia politica che comportava anche battaglie campali con l’interlocutore cui era rivolto: la Dc.

Il Pci fece di tutto per evitare il referendum ma senza mai mettere in discussione il valore della Legge sul divorzio. A questi tentativi si dedicarono in particolare Luigi Anderlini e Tullia Carrettoni parlamentari della sinistra indipendente. L’elemento individuato era una migliore difesa anche economica del coniuge più debole, cioè le donne. Quella difesa migliorava la legge non l’affossava ed è mia opinione che anche quella prudenza politica, propria di un partito di massa con milioni di elettori, lungi dall’ostacolarla aiutò la vittoria dei NO.

Venuti allo scontro, i comunisti non si tirarono indietro dispiegando tutta la loro forza. Anche i pessimisti sull’esito di quella battaglia di libertà si mobilitarono. Le donne ebbero un ruolo determinate e trainante. Rammento le compagne della mia sezione, anche quelle cattoliche, andare letteralmente casa per casa a convincere a votare NO.

Berlinguer girò l’Italia in lungo e largo facendo un comizio al giorno. Anche la chiusura della campagna fu trattata con il dovuto tatto: i comunisti a San Giovanni con Berlinguer il 9 maggio, gli altri partiti laici a Piazza del Popolo il giorno dopo. Secondo il principio, in quel caso efficace, del marciare divisi per colpire uniti. Non a caso i due anni che seguirono alla vittoria dei NO, che Berlinguer già due mesi dopo alla luce delle regionali sarde definì “liberatorio” (la Dc perse 6 punti il Pci ne guadagnò altrettanti), ingrossarono le vele dei comunisti italiani portandoli al 34,4% del 1976.

I radicali di Pannella con la Lega italiana per il divorzio, fondata nel 1966, ebbero certamente un ruolo positivo nel promuovere e agitare la questione nel paese. Rammento un loro slogan efficacissimo che pressappoco diceva “gli animali non divorziano i popoli civili sì”. Ma da qui a ribaltare i fatti politici e i protagonisti che costruirono quella vittoria ce ne passa.

Dice l’Enciclopedia Treccani: “fare la mosca cocchiera [è il modo] con cui si suole additare chi, pur non avendone capacità e requisiti, si illude o si vanta di possederli, pretendendo di guidare altri o di assumersi responsabilità”.

Definizione che ben si attaglia ai radicali nella vicenda del divorzio in Italia e a tanti ricostruttori di storia che assomigliano molto ai “costruttori di soffitte” di gramsciana memoria.

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