Soviet Army soldiers chatting to the children just liberated from the Auschwitz concentration campSoldati sovietici parlano con bambini appena liberati dal campo di sterminio di Auschwitz

A ottanta anni dall’ingresso dell’Armata Rossa nel campo di sterminio di Auschwitz, in presenza di una situazione gravissima a livello mondiale, davanti a immagini di morte e distruzione, davanti a immagini di nuove deportazioni, davanti al collasso di una riflessione storica che ogni giorno di più si piega di fronte ad un evidente revisionismo, ci sembra opportuno tornare a riflettere sul momento della nostra vita nazionale che determinò la promulgazione e la diffusione nel nostro paese delle leggi razziali. Si spera che dalla riflessione emergeranno le responsabilità del fascismo che non vanno ricondotte semplicisticamente all’alleanza con la Germania nazista: viene da lontano il razzismo non soltanto antisemita del fascismo italiano. Oggi non sappiamo se l’Italia sia un paese antirazzista; forse è poco razzista o mediamente razzista ma antirazzista sicuramente no! Siamo antisemiti se critichiamo la politica di Israele? Allora lo sono anche quegli intellettuali israeliani che si oppongono alla politica del loro governo? Siamo certi che nell’analisi di fenomeni storici l’equiparazione è sempre pericolosa in quanto, a differenza della comparazione, non consente di cogliere, oltre alle affinità, anche le differenze.

«L’introduzione della legislazione antiebraica avvenne ad opera del fascismo, che ne porta intera la responsabilità. I provvedimenti legislativi furono elaborati dal governo dittatoriale del Regno d’Italia presieduto da Benito Mussolini, furono approvati all’unanimità dalla Camera e a larghissima maggioranza dal Senato, furono controfirmati dal re Vittorio Emanuele III di Savoia. L’abrogazione di “qualsiasi legge che fa distinzione contro qualsiasi persona o persone in base a razza, colore o fede” fu decretata il 12 luglio 1943 dagli Alleati sbarcati in Sicilia e costituì una delle loro condizioni armistiziali; il primo documento del Regno d’Italia oggi noto attestante l’accettazione di tale condizione reca la data del 22 settembre 1943»[1].

La presenza di un elemento razzista nel fascismo data molto più lontano nel tempo e, quindi, non può essere ricondotta alla semplice subordinazione alla politica razziale nazista dalla quale, peraltro, Mussolini cercava di prendere le distanze ancora nel settembre del 1934 (discorso di Bari); si tratta, però, della stessa persona che, in occasione del Congresso di fondazione del Partito nazionale fascista tenutosi a Roma nel 192l si era espresso nei termini seguenti: «Per il fascismo la questione razziale ha una grande importanza; i fascisti devono preoccuparsi della salute della razza, perché la razza è il materiale con il quale intendiamo costruire anche la storia»[2].

Il mensile «La Vita italiana», fondato e diretto da Giovanni Preziosi (1881-1945), è un tipico esempio di stampa che si adoperò, particolarmente a partire dal 1922, alla diffusione dell’antisemitismo in Italia[3] e, seppure la maggioranza degli italiani sembrava essere esente dal contagio del morbo razzista, comunque «gli italiani… fecero in un certo senso l’orecchio e si abituarono inconsciamente a certi argomenti e molti si fecero l’idea che essi fossero delle “esagerazioni”, che non riguardavano certo i “buoni” ebrei italiani, ma che, in fondo, in essi dovesse essere qualcosa di vero. (…) Il Missiroli, ad esempio, pur condannando l’antisemitismo, pensava che l’ebraismo fosse “la negazione astratta e pessimistica della storia, l’intima persuasione che all’uomo sono vietate le libertà e la redenzione dal peccato, il dominio sulla natura e la verità” e che pertanto portasse indifferentemente “all’ascetismo e alla teocrazia, alla disperazione e alla ribellione”, fosse “padre dell’internazionalismo” e, in sostanza la guerra mondiale fosse mossa dai suoi presupposti. (…) Ma tra tutti gli “argomenti” degli antisemiti quello che indubbiamente più colpì le fantasie fu quello della banca ebraica, i suoi legami internazionali e il suo pernicioso influsso sulla vita italiana (…) si può dire dunque che al momento della “marcia su Roma” non esisteva certo un antisemitismo di massa e neppure un po’ diffuso, nonostante gli sforzi di alcuni gruppi e di alcune pubblicazioni, ma si può dire che si erano da alcuni anni andati via via affermando alcuni luoghi comuni e alcune leggende sul conto degli ebrei e dell’ebraismo che, pur non suscitando un’eccitazione e uno stato d’animo antisemita, facevano sì che in molti ambienti gli ebrei non fossero guardati più con la simpatia e l’imparzialità di quaranta – cinquant’anni prima e che alcuni slogan e alcune calunnie antisemiti non fossero più respinti in toto e con lo sdegno di un tempo»[4].

Il vero problema sta nel fatto che, seppure nel nostro paese esisteva una forma minoritaria di antisemitismo attivo, la promulgazione delle leggi del 1938 creò una sorta di indifferenza passiva nei confronti della questione che assunse dimensioni di massa. In questo la responsabilità del regime fascista fu evidente.

Verificata, attraverso le parole di De Felice, l’esistenza, in ogni caso, di un nucleo originario dell’antisemitismo e del razzismo italiani, è fin troppo chiaro che l’avvento al potere di Hitler (1933) e la successiva alleanza del fascismo con lui rafforzò questa tendenza. Dalla richiesta del numero chiuso per gli ebrei in Italia alla loro identificazione con il nucleo organizzativo dell’antifascismo, la campagna antisemita comincia a montare fra il 1933 e il 1935, supportata dall’uscita di un paio di pubblicazioni (Gli ebrei in Italia di Paolo Orano e Contra Judeos di Telesio Interlandi) a cui va aggiunto nel 1937 Il mito del sangue di Julius Evola e dalla nascita della rivista «La difesa della razza», diretta sempre da Interlandi (il primo numero esce il 5 agosto del 1938 e come segretario di redazione compare Giorgio Almirante).

La svolta fu la guerra d’Etiopia, la promulgazione di una legislazione apertamente razzista, la rottura delle vecchie alleanze internazionali con l’avvicinamento alla Germania.

Eppure la legislazione antiebraica introdotta nel 1938 ha qualcosa di totalmente nuovo rispetto alla svolta razzista attuata nelle colonie africane; essa mise in discussione il patto di eguale cittadinanza realizzato nel corso del Risorgimento: «Il legislatore fascista non giunse alla revoca generalizzata della cittadinanza italiana. Tuttavia, poiché egli escluse definitivamente tutti i perseguitati dalle Forze Armate (tanto dal servizio permanente che dal servizio di leva) e dato che tale partecipazione costituiva per i cittadini maschi l’incarnazione della cittadinanza stessa, egli li escluse di fatto dalla nazione, proclamando quindi la cessazione della vicenda storico-nazionale avviatasi con il Risorgimento. Fu allora, nell’autunno del 1938, che l’Italia cessò di essere la nazione che era stata; e fu cinque anni dopo, il 9 settembre 1943, con il reingresso degli espulsi nel nuovo movimento armato antifascista (per il reingresso nell’esercito regio sarebbe occorso altro tempo), che la vicenda interrotta (ma non annientata) nel 1938 tornò ad esistere nella realtà concreta e formale»[5]. E se il Manifesto della razza[6] può anche sembrare soltanto il decalogo della purezza della razza italiana stilato in base al modello germanico, sarà il segretario del Partito fascista Starace (1895-1945)[7] a far presenti, il 25 luglio del 1938, ricevendo gli estensori del Manifesto, le ragioni storiche e politiche dell’antisemitismo fascista; alla riunione erano presenti Lino Businco, assistente di patologia generale nell’Università di Roma, Lidio Cipriani, incaricato di antropologia nell’Università di Firenze, direttore del Museo nazionale di antropologia ed etnologia di Firenze, Arturo Donaggio, direttore della clinica neuropsichiatrica dell’Università di Bologna, presidente della società italiana di psichiatria, Leone Franzì, assistente nella clinica pediatrica dell’Università di Milano, Guido Landra, assistente di antropologia nell’Università di Roma, Nicola Pende, direttore dell’istituto di patologia speciale medica dell’Università di Roma, Marcello Ricci, assistente di zoologia nell’Università di Roma, Franco Savorgnan, ordinario di demografia nell’Università di Roma, presidente dell’Istituto centrale di statistica, Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e direttore dell’Istituto nazionale di biologia presso il Consiglio nazionale delle ricerche, Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di zoologia dell’Università di Roma; era inoltre presente il ministro della cultura popolare, Edoardo (detto Dino) Alfieri: «Il Segretario del Partito, mentre ha elogiato la concisione e la precisione delle tesi, ha ricordato che il Fascismo fa da sedici anni praticamente una politica razzista che consiste – attraverso l’azione delle istituzioni del regime – nel realizzare un continuo miglioramento quantitativo e qualitativo della razza. Il Segretario del Partito ha soggiunto che il Duce parecchie volte – nei suoi scritti e discorsi – ha accennato alla razza italiana quale appartenente al gruppo cosiddetto degli indo-europei. Anche in questo campo il regime ha seguito il suo indirizzo fondamentale: prima l’azione, poi la formulazione dottrinaria la quale non deve essere considerata accademica, cioè fine a se stessa, ma come determinante un’ulteriore precisazione politica.

Con la creazione dell’Impero la razza italiana è venuta in contatto con altre razze; deve quindi guardarsi da ogni ibridismo e contaminazione. Leggi “razziste” in tale senso sono già state elaborate e applicate con fascistica energia nei territori dell’Impero. Quanto agli ebrei essi si considerano da millenni, dovunque e anche in Italia, come una razza diversa e superiore alle altre, ed è notorio che nonostante la politica tollerante del Regime gli ebrei hanno, in ogni Nazione, costituito – coi loro uomini e coi loro mezzi – lo stato maggiore dell’antifascismo. Il Segretario del Partito ha infine annunciato che l’attività principale degli istituti di cultura fascista nel prossimo anno XVII sarà l’elaborazione e diffusione dei principi fascisti in tema di razza, principi che hanno già sollevato tanto interesse in Italia e nel mondo»[8].

In sostanza l’alleanza con Hitler rese esplicite tendenze razziste sostanziosamente presenti nel fascismo fin dalle sue origini esaltandole nel momento della persecuzione: infatti «dopo il varo della legislazione antisemita, la parabola del delirio razzista raggiunge il suo apice nella Repubblica di Salò: l’appello ai giovani ad arruolarsi “affinché i negri, al servizio dell’Inghilterra, non contaminino il sacro suolo” della patria va di pari passo con la consegna degli ebrei ai nazisti e la collaborazione con il Terzo Reich per la “soluzione finale”»[9]. Questo avviene perché, come già a proposito della legislazione razzista in Etiopia, nello stesso imperialismo fascista era nascosto, trovandovi solido terreno di coltura, il cancro del razzismo.

Le fasi dell’applicazione della legislazione razziale in Italia possono essere sintetizzate nel modo seguente: tra il febbraio e il novembre del 1938 (il Regio decreto contenente i Provvedimenti per la difesa della razza italiana è datato 17 novembre 1938 e compare sulla Gazzetta Ufficiale del 19 novembre) fu elaborata la normativa persecutoria concreta; da un primo momento di esenzione degli ebrei che avevano avuto meriti bellici o fascisti si passò ad una persecuzione generalizzata con un censimento degli ebrei (22 agosto 1938), la loro espulsione dalla scuola (2 settembre 1938) e poi da tutti gli impieghi pubblici (10 novembre 1938). A quest’ultima data risale anche il divieto di matrimoni “razzialmente misti”[10]. Queste norme furono votate all’unanimità dalla Camera e dal Senato (qui, in verità, qualche voto contrario ci fu anche perché c’era ancora qualche senatore ebreo di nomina regia) a dimostrazione della totale fascistizzazione del Parlamento e del «totale asservimento al regime del ceto politico dominante» a cui si doveva sommare «il coinvolgimento negli atti che di fatto revocavano l’emancipazione accordata agli ebrei dallo Statuto Albertino della stessa istituzione monarchica, il cui capo regnante, Vittorio Emanuele III, aveva controfirmato e promulgato le norme limitative dei diritti volute da Mussolini e dal regime fascista»[11].

Attraverso una casistica elaborata da Sarfatti è possibile capire cosa intendesse il fascismo per appartenente alla razza ebraica: «a) il discendente da 4 nonni di “razza ebraica” era sempre classificato “di razza ebraica”, anche se era di religione non ebraica. b) Il discendente da 3 nonni “di razza ebraica”, secondo il decreto legge del 17 novembre 1938 avrebbe potuto essere classificato “di razza ebraica” o “di razza ariana”, a seconda che egli e il suo genitore misto possedessero o no determinate caratteristiche. Ben presto però venne deciso, con una disposizione amministrativa, di classificare comunque “di razza ebraica” chiunque avesse “il 75 per cento di sangue ebraico”, ovvero “più del 50 per cento di sangue ebraico”. c) Il discendente da due nonni “di razza ebraica” poteva essere classificato “di razza ebraica” o “di razza ariana”. Per la classificazione “di razza ariana” occorreva che egli e (nel caso i quattro nonni avessero costituito due coppie miste) almeno un suo genitore misto appartenessero ufficialmente a religione non ebraica anteriormente al 1° ottobre 1938 (chi a tale data era agnostico o catecumeno veniva classificato “di razza ebraica”) e occorreva che né l’uno né l’altro avessero compiuto, dopo l’inizio di tale appartenenza ufficiale, “manifestazioni di ebraismo” (tali erano ad esempio l’iscrizione a una comunità ebraica o comunque la professione di fede ebraica, nonché – come venne successivamente precisato – il matrimonio con persona classificata “di razza ebraica” o la presenza di figli comunque classificati “di razza ebraica”). d) Il discendente da un nonno “di razza ebraica” poteva essere classificato “di razza ebraica” o “di razza ariana”. Per la classificazione “di razza ariana” occorreva che o il suo genitore misto o egli stesso appartenessero ufficialmente a religione non ebraica, secondo i criteri sopramenzionati»[12].

Dalla persecuzione dei diritti si passò dopo 18 settembre del 1943 alla persecuzione delle vite degli ebrei.

In questo senso il rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre del 1943 rimane uno degli episodi più significativi dell’applicazione della legislazione antiebraica. Il ghetto fu circondato e tutti gli ebrei vennero prelevati sulla base di elenchi nominativi.

La descrizione di Giacomo Debenedetti, consegnata al racconto breve intitolato 16 ottobre 1943, restituisce con realismo i momenti della retata: «Dei camion veniva abbassata la sponda destra, e si cominciava a fare il carico. I malati, gli impediti, i restii erano stimolati con insulti, urlacci e spintoni, percossi coi calci dei fucili. Il paralitico con la sua sedia venne letteralmente scaraventato sul camion, come un mobile fuori uso su un furgone da trasloco. Quanto ai bambini, strappati alle braccia delle madri, subivano il trattamento dei pacchi, quando negli uffici postali si prepara il fur-goncino. E i camion ripartivano, né si sapeva per dove; ma quel loro periodico tornare, sempre gli stessi, faceva supporre che non si trattasse di luogo troppo lontano. E questo nei “razziati” poté forse accendere una specie di speranza. Non ci mandano via da Roma, ci terranno qui a lavorare»[13].

Ed invece erano destinati molto lontano da Roma, a Birkenau, dove giunsero il 23 ottobre; da lì, a guerra finita, tornarono in 15, 14 uomini e una donna. La furia nazista si protrasse e si abbatté sulle case che furono saccheggiate, sui negozi e sui magazzini che, nel giro di un paio di mesi, furono svuotati di tutto. Non soltanto il ghetto di Roma fu oggetto della violenza razzista dei nazisti; anche Venezia, il 3l dicembre del 1943 e il 17 agosto del 1944, e Trieste, il 20 gennaio del 1944. I deportati transitavano per Fossoli, per Verona, per Bolzano e da lì venivano trasferiti nei campi di sterminio.

Caduto il fascismo e assunto il potere da Badoglio le leggi del 1938 non furono abrogate consentendo, così, di mantenere intatta la documentazione relativa agli ebrei depositata nei ministeri; in questo modo ne diventò facile l’utilizzazione da parte dei nazisti e dei fascisti nella loro opera di deportazione e di sterminio. Inoltre nel gennaio del 1944 un decreto legislativo mussoliniano ordinava l’internamento di tutti gli ebrei senza eccezione e la spoliazione di tutti i loro beni mobili ed immobili. L’elenco di tali beni consente di cogliere appieno il grado profondo di persecuzione cui il fascismo sottopose gli ebrei: pezzi di argenteria, mobili, immobili, proprietà terriere, opere d’arte e tappeti di valore fino a poveri oggetti di casa e oggetti personali.

È ormai di pubblico dominio che molti italiani si adoperarono, durante il periodo ’43-’45, per salvare le vite di ebrei altrimenti destinati ai campi di sterminio, «ma è necessario ricordare nello stesso tempo che il regime fascista non fu espressione di pochi, isolati delinquenti ma di settori ampi della società italiana, che proprio perciò poté durare vent’anni mettendo insieme forza e consenso e che numerose furono le complicità della società civile con il regime, prima e dopo l’8 settembre del 1943»[14]. Fra queste complicità, soprattutto in relazione alla promulgazione della legislazione antiebraica, vanno ricordate quelle indubbiamente autorevoli del re, Vittorio Emanuele III, che firmò tutte le leggi, del papa Pio XI, che protestò «solo contro la norma che vietava la celebrazione di qualsiasi matrimonio “razzialmente” misto, in quanto essa vietava la trascrizione da parte dello Stato italiano dei matrimoni celebrati con rito religioso cattolico»[15], del suo successore Pio XII, dei deputati, che votarono all’unanimità le leggi, dei senatori, che fecero altrettanto, ad esclusione di nove, degli studenti e degli intellettuali schierati con il regime nonché della stampa, mentre le norme furono condannate dagli antifascisti. La gente comune, ossia quella che dice di non occuparsi di politica, fu nella maggioranza attirata nell’orbita della propaganda razzista del fascismo e si adeguò. La Resistenza, alla quale gli ebrei parteciparono con una loro formazione, sarebbe arrivata qualche anno dopo.

  1. M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Torino, Einaudi, 2002, p. 4.
  2. B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. XVII, Firenze, La Fenice, 1951, p. 219.
  3. Sul mensile di Preziosi fu pubblicato nell’agosto del 1937 una specie di decalogo, intitolato Dieci punti fondamentali del problema ebraico, che costituiva una sintesi della sua ventennale campagna antiebraica.
  4. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993, pp. 53-5
  5. M. Sarfatti, op. cit., pp. 6-7.
  6. Il Manifesto della razza, ovvero il Manifesto degli scienziati razzisti, che recava la firma di «un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane» (nomi e cognomi con relative qualifiche sono riportati nel testo) e predisposto «sotto l’egida del Ministero della Cultura popolare» «si presentava come decalogo destinato a stabilire i fondamenti storico-antropologici di un dispositivo normativo, prescindendo da ogni rigorosa impostazione scientifica e piegando lo stesso sviluppo storico della popolazione italiana (o meglio sarebbe dire delle popolazioni italiane) ad una profonda manipolazione pur di consentire la rappresentazione di un percorso lineare tale da permettere che si potessero tracciare le conclusioni categoriche che venivano prospettate» (E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 60)
  7. Achille Starace fu organizzatore dello squadrismo trentino, deputato, segretario del Partito nazionale fascista dal 193l al 1939 e poi, fino al 194l, capo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Catturato dai partigiani, fu giustiziato a Milano.
  8. Questo documento (Comunicato del PNF a proposito del Manifesto degli scienziati razzisti) è riportato in R. De Felice, op. cit., p. 557.
  9. D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 11.
  10. Ricorda Collotti, a p. 77 del suo libro già qui citato, facendo riferimento a recenti studi comparatistici fra la legislazione razzista italiana e quella tedesca, che «non esiste in Germania una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri come quella italiana del settembre 1938; analogamente l’espulsione degli ebrei dalle scuole in Germania seguì un percorso molto più graduale che non in Italia».
  11. E. Collotti, op. cit., p. 78.
  12. M. Sarfatti, op. cit, pp. 20-21.
  13. G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001, pp. 31-32.
  14. N. Tranfaglia, Labirinto italiano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici, Firenze, La Nuova Italia, 1989, p. 84.
  15. M. Sarfatti, op. cit., p. 43.

Crediti foto: PD in accordo con legislazione russa, fonte Wikimedia Commons

2 pensiero su “27 gennaio 1945 – 27 gennaio 2025”
  1. Buon articolo che evidenzia sia la responsabilità del PNF che quella di una larga parte della popolazione italiana. Per la verifica del razzismo del fascismo aggiungerei una riflessione sulle attività del regime nei territori acquisiti sul fronte nord-orientale. Una domanda a cosa ci si riferisce quando si parla di partecipazione ebraica alla Resistenza con una propria formazione ?

    1. Con formazione ebraica partecipante alla Resistenza si intendeva, e si intende, quell’insieme di personaggi che diedero un contributo alla guerra di Liberazione formando, non solo in teoria, un gruppo di partigiane e partigiani. Si intendono dirigenti del Cln come Terracini, che, inoltre, come Presidente dell’Assemblea costituente, pose la sua firma alla nostra Costituzione, Emilio Sereni, Leo Valiani. Si intendono Primo Levi, Luciana Nissim, Vanda Maestro catturati dai nazifascisti mentre operavano in formazioni partigiane in Val d’Aosta e deportati ad Auschwitz. Si intende Franco Cesana, morto in combattimento a soli dodici anni avendo deciso di raggiungere il fratello già inquadrato in una formazione partigiana. Si intende Emanuele Artom, giovane storico, che, a causa delle leggi razziali non riuscì, come avrebbe voluto, a insegnare; entrò nelle formazioni partigiane del Partito d’Azione, fu catturato dai fascisti e, a causa delle torture subite, morì e il suo corpo, seppellito alla periferia di Torino, non fu mai ritrovato. Elena Di Porto, ebrea romana, che si ribellò ad un atto di violenza dei fascisti, fu inizialmente inviata al confino dal quale tornò e, durante il rastrellamento del ghetto di Roma, il 16 ottobre del 1943, si consegnò ai nazifascisti per non lasciare sola la sorella e i nipoti. Morì ad Auschwitz. Eugenio Curiel, ebreo, partigiano, comunista, ucciso a Milano dai militi fascisti. A lui il poeta Alfonso Gatto dedicò alcuni versi della poesia intitolata 25 aprile: «[…] la speranza che dentro ci svegliava / oltre l’orrore le parole udite / dalla bocca fermissima dei morti / “liberate l’Italia, Curiel vuole / essere avvolto nella sua bandiera” […]». Di Leone Ginzburg, azionista, combattente nelle formazioni di Giustizia e Libertà non scrivo oltre visto che a lui dedica una pagina l’ANPI. https://www.anpi.it/biografia/leone-ginzburg
      Queste figure, e altre ce ne sarebbero, diventano, a mio modo di vedere, una vera e propria formazione combattente.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *