MANUALI UTILIZZATI
P. Silva, Corso di storia ad uso dei licei ed istituti magistrali, Messina, 1940
N. Rodolico, Sommario storico per licei ed istituti magistrali, Firenze, 1937
A. Manaresi, La civiltà contemporanea, Torino, senza data
B. Lizier, Corso di storia per licei ed istituti magistrali, Milano, 1940
L. Simeoni, Corso di storia per licei ed istituti magistrali, Bologna, 1940
A. Bazzola, Roma, Torino, senza data
F. Cognasso, Storia d’Italia per licei ed istituti magistrali, storia contemporanea, Torino, 1935
N. Cortese, Corso di storia per licei ed istituti magistrali, Firenze, 1942
A. Valori – U. Toschi, L’età contemporanea, Torino, 1927
13. VIOLENZA E PROPRIETA’
Il Simeoni a p. 307 del suo manuale spiega quale fosse l’obiettivo della violenza dei lavoratori e delle classi subalterne.
Questo grave disagio e malcontento provocò continui e dannosi scioperi di operai, di ferrovieri, e persino di funzionari dello Stato; movimenti che, oltre allo scopo economico, chiaramente miravano alla conquista del potere per instaurare anche fra noi un regime socialista-comunista, simile a quello bolscevico di Russia che la illusione dipingeva come il paradiso dei lavoratori. Le manifestazioni contro la guerra, le violenze contro ufficiali, mutilati e carabinieri, assunsero una forma violenta e talvolta bestiale in veri e propri eccidii, mentre nelle campagne, in odio ai padroni, si lasciavano marcire le messi e le uve raccolte, e le mucche nelle stalle erano abbandonate senza acqua e foraggio e senza essere munte, in una selvaggia esplosione di odio verso la proprietà ed ogni gerarchia sociale e statale, che preparava la rovina per tutti. Nelle ferrovie dominava una così stolta indisciplina, che talora macchinisti e capitreno si rifiutavano di far partire i convogli, se non erano fatti scendere carabinieri o soldati, o staccati carri di armi e munizioni.
Sembra una variante su temi che già si è avuto modo di sottolineare. Qui, però, c’è qualcosa in più: la “selvaggia esplosione di odio verso la proprietà ed ogni gerarchia sociale e statale”. Non vorremmo ripeterci sulle menzogne, però vale proprio la pena: a parte l’insistenza sulle illusioni generate dalla rivoluzione russa, qui si tocca con mano la specificità del fascismo come movimento di classe della borghesia; mettere in discussione la proprietà è il terrore dei grandi latifondisti italiani del primo dopoguerra. Ma uno sciopero per la richiesta di un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro mette in discussione la proprietà? Inoltre la gerarchia statale, usando gli organi preposti all’ordine pubblico, si schierò al fianco del ceto proprietario: il che, riteniamo, generò nelle forze sociali in agitazione un legittimo risentimento il più delle volte affrontato dallo Stato, e poi dai fascisti che facevano il suo gioco, con la violenza più dura.
14. LA COMPOSIZIONE SOCIALE DEL FASCISMO
Il manuale di Simeoni, a p. 308 e p. 310, traccia un profilo sociologico del fascismo, della sua composizione sociale.
La salvezza d’Italia non poteva venire più dalle forze ufficiali dello Stato troppo decadute e impacciate dai loro preconcetti di una falsa libertà, ma da altre forze sane e potenti che, per fortuna della patria, la guerra aveva fatto sorgere nel suo seno. […] In ogni città, all’appello del Duce, sorsero rapidamente, sull’esempio del Fascio primigenio, altri Fasci (e fra i primi quello di Trieste per lottare contro un doppio nemico: il comunismo e lo slavismo associati) composti di uomini di ogni partito, aventi in comune la fede nella patria. Erano veterani delle trincee che non volevano tradita la vittoria così duramente guadagnata, erano giovanissimi che avevano vissuto nella purezza del culto della patria l’ansia degli anni di guerra, la gioia sublime della vittoria, e offrivano la loro giovane vita alla salvezza d’Italia.
Insomma, l’autore del manuale manifesta la convinzione che la debolezza della compagine governativa italiana del primo dopoguerra dipendesse dal suo asservimento “ai preconcetti di una falsa libertà”. Strano, però, che in nome di questa libertà quegli uomini politici avessero tramato, di fatto, come già sottolineato, in combutta con Mussolini e D’Annunzio, per portare il Paese alla guerra da cui sarebbero sorte le “forze sane e potenti” in grado di risolvere i problemi del Paese. Inoltre, per essere più incisivo, l’autore avrebbe dovuto insistere su un aspetto sicuramente fondamentale del discorso da lui stesso avviato: i fascisti della prima ora sono soprattutto coloro che al fronte avevano ricoperto incarichi di comando ai quali si erano talmente affezionati da non volerli più abbandonare una volta tornati a vestire gli abiti civili; sono costoro a correre per primi a San Sepolcro, alla fondazione del “Fascio primigenio”. Il brano accenna, oltre al comunismo, ad un altro nemico del fascismo, lo slavismo. Sottolineiamo la cosa in quanto precorritrice di un aspetto della nostra storia, in particolare quella della Resistenza, su cui il revisionismo, nel senso deteriore e politicizzato del termine, ha costruito parte della sua gloria: le foibe. Come completamento del quadro relativo alla composizione sociale del fascismo si legga il passo in calce a questa voce tratto da p. 508 del Valori-Toschi in cui è facile registrare una consonanza pressoché perfetta con quanto asserito nel Simeoni.
Il primo e più urgente compito era intanto di ristabilire l’ordine nel Paese. Dato l’assenteismo del Governo e la decadenza di ogni principio d’autorità, i fascisti dovettero ricorrere alla forza, intervenendo dovunque occorresse e rischiando la vita, uno contro cento, nei comizi socialisti e anarchici, negli scioperi, nelle dimostrazioni antinazionali, facendo dovunque sentire il proprio grido di protesta. Specialmente fra gli ex-combattenti e fra i giovanissimi che non avendo potuto combattere avevano ereditato la passione dei fratelli maggiori e il senso vivo d’italianità, il fascismo conquistò rapidamente nuove reclute, così da poter opporre, in ogni provincia, piccoli ma robusti nuclei ben organizzati e audacissimi alle masse numerose ma pavide delle leghe rosse, corrotte dal verbo bolscevico.
A proposito della composizione sociale del fascismo, nel modo seguente si esprime Gramsci nell’articolo Il popolo delle scimmie pubblicato su «L’Ordine Nuovo» il 2 gennaio 1921:
«Il fascismo è stata l’ultima “rappresentazione” offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica nazionale. La miserevole fine dell’avventura fiumana è l’ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l’episodio più importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione italiana.
Il processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell’ultimo decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel “cretinismo parlamentare”.
Questo fenomeno che occupa una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi nelle sue varie fasi: si chiama originalmente “avvento della sinistra al potere”, diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola borghesia si incrosta nell’istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull’Amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo.
Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l’unico strumento di controllo e di opposizione agli arbitri del potere amministrativo è l’azione diretta, è la pressione dall’esterno. La settimana rossa del giugno 1914 contro gli eccidi, è il primo grandioso intervento delle masse popolari nella scena politica, per opporsi direttamente agli arbitrii del potere, per esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova più una qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica della piccola borghesia.
La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si riaffaccia, coi tentativi del Partito popolare per ridare importanza alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della Confederazione generale del Lavoro per galvanizzare il morticino-controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza.
Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti ad una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che ha preso il nome di “radiose giornate di maggio”, con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della jungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc.
Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza. Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente: la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l’idea socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di “vero rivoluzionarismo”, di “sindacalismo nazionale”. L’azione diretta delle masse nei giorni 2-3- dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali contro i deputati socialisti, pone un freno all’attività politica della piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di sistemarsi intorno a padroni più ricchi e più sicuri che non sia il potere di Stato ufficiale, indebolito e esaurito dalla guerra.
L’avventura fiumana è il motivo sentimentale e il meccanismo pratico di questa organizzazione sistematica, ma appare subito evidente che la base solida dell’organizzazione è la diretta difesa della proprietà industriale e agricola dagli assalti della classe rivoluzionaria degli operai e dei contadini poveri. Questa attività della piccola borghesia, divenuta ufficialmente “il fascismo”, non è senza conseguenza per la compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l’istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l’esercito, la polizia, la magistratura.
Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l’unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il “popolo delle scimmie” è caratterizzato appunto dall’incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici “rivoluzionari” e disgregare la più potente difesa della proprietà, lo Stato. La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del “popolo delle scimmie”, della piccola borghesia.
La piccola borghesia, anche in questa ultima incarnazione politica del “fascismo”, si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre più larga scala, la violenza privata all’ “autorità” della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre più larghi strati della popolazione».
15. IL PATTO DI PACIFICAZIONE
Il manuale di Cognasso a p. 400 descrive le condizioni in cui fu proposto il patto di pacificazione.
Gli [a Giolitti, n.d.c.] successe il Bonomi, ma di fronte a fascisti e socialisti che combattevano in Parlamento come in tutte le regioni, non seppe adottare altra politica che quella del paciere, come se si potesse avere pace, accordo fra ordine e disordine. Fu tentato in realtà un armistizio tra le due parti, ma i comunisti non vollero aderire ed i socialisti violarono gli impegni e presto la tregua d’armi decadde e di nuovo si ritornò alle aggressioni, agli eccidi da una parte, alle spedizioni punitive dall’altra.
Esordendo alla Camera il 21 giugno del 1921, il neoeletto deputato Mussolini aveva sostenuto che per il fascismo la violenza era «una dura necessità» e Gramsci aveva commentato, il giorno dopo su «L’Ordine Nuovo», il discorso mussoliniano nel modo seguente nell’articolo intitolato Sovversivismo reazionario:
«Al gioco non troppo significativo delle combinazioni tra i vari gruppi parlamentari, argomento prediletto della cabalistica dei corrispondenti romani, è seguito ieri alla Camera il debutto di colui che ama presentarsi ed essere presentato come il capo della reazione italiana: Mussolini. E Mussolini debuttando ha creduto bene ricordare, quasi a titolo di merito, le sue origini sovversive.
È una posa o è il desiderio di conciliarsi con ciò maggiormente i favori del nuovo padrone?
L’uno e l’altro motivo senza dubbio concorrono, ed è pur vero che il passato sovversivismo del nuovissimo reazionario è un elemento il quale contribuisce non poco a tratteggiarne la figura. Bisogna però parlarne con spregiudicatezza e sfrondare un poco anche questo mito mussoliniano, caro al capo della vecchia ala rivoluzionaria del Partito socialista.
È merito della maggiore maturità di coscienza portata dalle concrete esperienze rivoluzionarie di questi ultimi anni, se, ripensando agli atteggiamenti e ai fatti di quel tempo non possiamo a meno di vederli ridotti a proporzioni tanto diverse da quelle che ci apparivano allora?
Nel parlare alla Camera, Mussolini ha usato forse una sola parola esatta, quando a proposito del suo modo di concepire i conflitti politici e di agire, ha parlato di blanquismo.
La confessione ci permette di metterci dal punto di vista più opportuno per cogliere e rendere con esattezza quanto istintivamente percepiamo oggi di illogico, di goffo, di grottesco, nella figura di Mussolini. Il blanquismo è la teoria sociale del colpo di mano ma, a pensarci bene, il sovversivismo mussoliniano non aveva preso di esso che la parte materiale. Anche la tattica della III Internazionale si è detto che ha dei punti di contatto col blanquismo, ma la teoria della rivolta proletaria quale viene diffusa da Mosca e quale è stata attuata dai bolscevichi forma una cosa sola con quella marxista della dittatura del proletariato.
Del blanquismo Mussolini aveva ritenuto solo l’esteriorità, o meglio, egli stesso lo aveva fatto diventare qualcosa di esteriore, lo aveva ridotto alla materialità della minoranza dominatrice e dell’uso delle armi nell’attacco violento. L’inquadramento dell’azione della minoranza nel movimento di massa, e il processo che fa della rivolta il mezzo per una trasformazione dei rapporti sociali, tutto ciò era scomparso.
La settimana rossa romagnola, il tipico movimento mussoliniano, era quindi definita nel modo più esatto da coloro che la chiamavano una rivoluzione senza programma.
Ma non basta; si può sostenere che per il capo dei fascisti le cose, da allora ad oggi, non sono cambiate. La sua posizione è, in fondo, ancora quella di una volta. Anche oggi egli non è altro che un teorico, se cosí si può dire, e un inscenatore di colpi di mano. Il blanquismo, nella sua materialità, può essere oggi sovversivo, domani reazionario. Sempre però esso è rivoluzionario e ricostruttore solo in apparenza, condannato a mancare di continuità e di sviluppo, dannato a non saper saldare insieme l’uno e l’altro colpo di mano nella linea di un processo storico.
Oggi i borghesi, mezzo impauriti e mezzo stupefatti, guardano a quest’uomo che si è messo ai loro servizi come ad una specie di nuovo mostro, rivoluzionatore di situazioni reali e creatore di storia. Nulla di più falso. L’incapacità di saldare insieme gli anelli di una costruzione storica è tanto grande nel blanquismo di questo epilettico quanto lo è nel sovversivismo malthusiano dei D’Aragona e dei Serrati. Sono tutti di una sola famiglia. Rappresentano, tanto l’uno quanto gli altri, una stessa impotenza. Se nella reazione italiana appare oggi una consistenza e una continuità, essa proviene da altri elementi, da altri fattori, di carattere non solo nazionale ma comune a tutti i paesi e di natura ben diversa da quello che vorrebbe far credere questo esasperato esaltatore di se stesso.
La lotta contro le rivendicazioni e la resistenza contro la riscossa operaia partono da basi ben piú concrete, ma è senza dubbio significativo, per la serietà della vita politica italiana, che al culmine di una costruzione che è tenuta assieme da un poderoso sistema di forze reali si trovi questo uomo che si diletta a fare i giochi di forza e a masturbarsi colle parole.
I politici della borghesia, che giudicano dalla impotenza loro e dalla loro paura, parlano di un sovversivismo reazionario. Per noi e per tutti coloro che qualcosa comprendono del gioco di forze che fa la politica, non si tratta che di una mosca cocchiera».
Quello descritto da Gramsci è lo stesso personaggio che, nel luglio del 1921, propose, con il favore del governo Bonomi, un patto di pacificazione che fu accettato dai socialisti riformisti in funzione anticomunista. Quindi è ovvio che i comunisti non vollero aderire così come i popolari non si mostrarono particolarmente entusiasti. Lo scopo del patto era quello di creare un momento di tregua nelle violenze scatenate dai fascisti per consentire a Mussolini un avvicinamento soft all’area di Governo onde estrometterne in modo definitivo Giolitti. Il patto fallì dopo pochi mesi, e per dire le cose come andarono veramente, a causa della ripresa delle violenze degli squadristi che non volevano saperne di rimanere con le mani in mano in attesa di un’evoluzione della situazione politica nel senso sperato dal loro capo il quale si adeguò alla volontà dei suoi. Sul patto di pacificazione si veda E. Gentile, Storia del fascismo, Bari-Roma, Laterza, 2022, pp. 144-174 dove si legge che Mussolini, chiuso il Congresso, svoltosi a Roma nel novembre del 1921, che sanciva la fondazione del Partito fascista, «prese a pretesto lo sciopero generale nella capitale e le aggressioni ai fascisti nei giorni del congresso per dichiarare che il patto di pacificazione era “morto e sepolto” (B. Mussolini, Opera Omnia, XVII, p. 240). In realtà, – continua Gentile – gli squadristi non l’avevano mai considerato vivo. Avevano continuato e continuarono a far morti fra i nemici durante una spedizione o per vendicare i fascisti uccisi in un agguato».
16. MATTEOTTI E L’AVENTINO
Unico fra i manuali esaminati, il Cognasso a p. 410 fa un riferimento alla situazione creatasi in Italia dopo le elezioni del 6 aprile del 1924.
Contrasti, opposizioni di liberali, di socialisti, non erano mancati nel 1923; nel 1924 si ebbe la crisi definitiva e liberatrice. L’assassinio del deputato socialista Matteotti avvenuto per opera di elementi fascisti irresponsabili fu preso come pretesto dalle opposizioni parlamentari per tentare di abbattere il Fascismo. I deputati oppositori abbandonarono il Parlamento, proclamandosi essi soli i veri rappresentanti del Paese di contro al governo ed alla maggioranza parlamentare fascista. Contemporaneamente i giornali liberali e socialisti iniziavano un violento attacco contro Mussolini ed il Partito fascista.
Ma questa opposizione formata di elementi eterogenei – dai liberali ai comunisti – non aveva idee, non aveva programma, non aveva uomini che la seguissero. Ed inoltre aveva così poco coraggio che non osò passare dalla scomposta vociferazione all’azione; era la retorica superstite, l’ultima sempre a scomparire. L’Italia non aveva nulla di buono da attendere da questa accozzaglia di teorici, di ambiziosi e di incapaci.
Per ottenere la maggioranza assoluta alla Camera il fascismo promulgò una legge elettorale maggioritaria (approvata il 23 luglio del 1923 come esito della sperimentazione avvenuta nelle elezioni amministrative svoltesi nella primavera e convocate a causa dello scioglimento di diverse amministrazioni locali dopo le violenze delle bande fasciste), detta legge Acerbo dal cognome del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri che la firmò, con la quale veniva abolito il sistema proporzionale (introdotto con le elezioni del 1919) e venivano assegnati nelle elezioni politiche due terzi dei seggi della Camera alla lista di maggioranza relativa. Il quorum per l’assegnazione del premio di maggioranza fu fissato al 25% dei voti. Con tale sistema si svolsero le elezioni del 6 aprile del 1924 contro il cui esito, prevedibilmente favorevole ai fascisti (64,9% dei voti con 356 deputati contro il 35,1% delle opposizioni che ottennero 161 deputati), non soltanto grazie alla legge studiata appositamente ma anche alle violenze messe in atto durante la campagna elettorale e nel corso delle stesse operazioni di voto, si alzò la denuncia del deputato e segretario del Partito socialista unitario Giacomo Matteotti che, per questo, fu sequestrato e assassinato da sicari fascisti. In segno di protesta, i deputati delle opposizioni al fascismo abbandonarono il Parlamento (Aventino), ad esclusione dei comunisti che, dopo un’iniziale adesione, ritennero più valida un’opposizione diretta nell’aula del Parlamento da estendersi nelle piazze. A conclusione della crisi aperta dal delitto Matteotti e dalla secessione aventiniana, dopo essersi assicurato l’appoggio della monarchia, Mussolini si presentò in Parlamento il 3 gennaio del 1925 rivendicando la responsabilità di quanto accaduto e lasciando chiaramente intendere che il futuro sarebbe stato caratterizzato dalla soppressione delle libertà costituzionali e dall’instaurazione di una dittatura. Si evince che lo storico autore del manuale fosse a scarsa conoscenza dei discorsi del suo Duce, ossia dei documenti; o meglio, omise qualsiasi riferimento alle parole di Mussolini. Per una comparazione si legga quanto scrive sull’argomento il Rodolico a p. 336 del suo manuale, datato 1959. Va notato l’evidente errore relativo all’istituzione della Milizia che avvenne con regio decreto del 14 gennaio 1923 e non in conseguenza dell’Aventino.
L’indignazione nel Paese fu enorme [il riferimento è al periodo successivo all’uccisione di Matteotti, n.d.c.]. Sarebbe stato quello il momento di reagire. Né mancavano nel Parlamento gli oppositori che avrebbero potuto raccogliere forze e dominare la situazione. Preferirono appartarsi in segno di protesta. Fu atto di debolezza, che privò il capo dello Stato della forza morale e politica che avrebbe sorretto ogni sua azione in quel momento. E fu così dato tempo e modo a Mussolini e ai più audaci del suo partito di superare la crisi, di riprendere il dominio della situazione politica, di stroncare l’opposizione, e di affermare il regime dittatoriale. Furono allora sciolti tutti i partiti ad eccezione del fascista, fu introdotta la pena di morte, fu istituito un tribunale speciale. Il Parlamento restò in vita, ma era composto da deputati designati dal Gran Consiglio fascista, che divenne il supremo organo dello Stato, strumento anch’esso del Duce. Fu allora formata una Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, corpo armato al servizio del partito, e del Duce.
Gramsci, eletto deputato nelle elezioni del 6 aprile, scrivendo il 22 giugno del 1924 alla compagna Giulia Schucht, che si trovava a Mosca, descrive nel modo seguente l’Aventino: «Ho vissuto giornate indimenticabili e continuo a viverle. Dai giornali è impossibile farsi un’impressione esatta di ciò che sta avvenendo in Italia. Camminavamo sopra un vulcano in ebollizione; di colpo, quando nessuno se l’aspettava, specialmente i fascisti arcisicuri del proprio potere infinito, il vulcano è scoppiato, sprigionando un’immensa fiumana di lava ardente che ha invaso tutto il paese, travolgendo tutto e tutti del fascismo. Gli avvenimenti si sviluppavano con una rapidità fulminea, inaudita; di giorno in giorno, di ora in ora la situazione cambiava, il regime era investito da tutte le par-ti, il fascismo veniva isolato nel paese e sentiva il suo isolamento nel panico dei suoi capi, nella fuga dei suoi gregari. Il lavoro fu febbrile; occorreva di ora in ora prendere disposi-zioni, dare direttive, cercare di dare un indirizzo al torrente popolare straripato. Oggi la fase acuta della crisi è apparentemente superata. Il fascismo chiama a raccolta disperatamente le sue forze che, quantunque ridotte, continuano a dominare spalleggiate come sono da tutto l’apparecchio statale, per le condizioni di incredibile dispersione e disorganizzazione in cui si trovano le masse. Ma un grande passo in avanti è stato fatto dal nostro movimento: il giornale [n.d.c., ossia «l’Unità»] ha triplicato la tiratura, in molti centri i nostri compagni si sono posti a capo delle masse e hanno tentato di disarmare i fascisti, le nostre parole d’ordine sono accolte con entusiasmo e ripetute nelle mozioni votate nelle fabbriche; in questi giorni credo che il nostro partito sia diventato un vero partito di massa. Ho partecipato alle riunioni di tutte le opposizioni parlamentari, che nell’opinione pubblica erano diventate il centro dirigente del movimento generale. Grosse parole ma nessuna volontà di agire: paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione. Quante esperienze ho fatto in questi giorni! Ho visto in faccia la “piccola borghesia” con tutti i suoi tipici caratteri di classe. La parte piú ributtante di essa era costituita dai popolari e dai riformisti (per non parlare dei massimalisti, povera gente di cascia [n.d.c., polentina di grano saraceno, piatto tradizionale russo] andata a male); i piú simpatici erano Amendola e il generale Bencivenga dell’opposizione costituzionale che si dichiarano favorevoli in principio alla lotta armata e disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei comunisti se questi fossero in grado di organizzare un esercito contro il fascismo. Un deputato democratico sociale (è questo un partito siciliano che unisce latifondisti e contadini), che è duca, Colonna di Cesarò, ministro di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere piú rivoluzionario di me perché fa la propaganda del terrore individuale contro il fascismo. Tutti, naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e all’appello alle masse proletarie [n.d.c., Gramsci aveva proposto lo sciopero generale all’assemblea parlamentare dei gruppi di opposizione il 14 giugno]. La situazione è ancora acutissima. C’è stato già un tentativo di colpo di Stato da parte dei fascisti estremisti, sventato da una vasta concentrazione di soldati e di carabinieri. Corrono le voci piú strampalate. Certo in questi giorni accadrà qualcosa che potrebbe anche essere un colpo di mano mili-tare. Politicamente la situazione non è risolta perché le opposizioni non vogliono rientrare in Parlamento fino a che alcuni capi fascisti responsabili non siano arrestati».
Crediti foto: Wikimedia Commons, Sfilata dei Balilla nella odierna Piazza della Repubblica, il giorno della visita di Hitler a Napoli, autore e data sconosciuti, PD per decorso del tempo