Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
(P. P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci)
Le Ceneri sono una grande testimonianza di impegno civile. Per celebrare il 2 novembre, giorno di riflessione e anche, se luoghi e tempi ce lo consentissero, di meditazione, non vedo miglior Parola. Pasolini, in questi versi, è in modo sconvolgente uomo di oggi. La sua analisi, i suoi paragoni, le sue amarezze, sembrano strappati all’esistenza consapevole di chi, fra noi, si guarda intorno senza infingimenti, ma sentendosi parte del popolo. E non rinuncia alla speranza.
(Gigi Proietti su Pasolini)
Nota dell’amministratore del blog: in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, Lelio La Porta ci propone una importante riflessione sulla figura del grande intellettuale comunista e il suo rapporto con la figura di Antonio Gramsci. Ci piace premettere a questo saggio le parole che Gigi Proietti disse, proprio di fronte alla tomba di Gramsci, in occasione di un altro 2 novembre, quello del 2006, ricordando anche lui insieme Pasolini e Gramsci. Per una di quelle coincidenze che accadono nella storia degli uomini Proietti ci lasciò un 2 novembre, nel 2020. (1)
L’assassinio di Pasolini, il cui corpo orrendamente massacrato fu rinvenuto il 2 novembre del 1975 e di cui ricorre il 50° anniversario, è stato causa di dolore e di rabbia autentica per chi militava a sinistra o, comunque, aveva a cuore le sorti della cultura nel nostro paese (e per questo stava a sinistra ieri e a sinistra si trova ancora oggi). Chi lo avrebbe visto con piacere bruciare in Campo de’ Fiori come Giordano Bruno o, meglio ancora, avrebbe desiderato fargli indossare la mordacchia, ancor prima di spedirlo al rogo, dimenticava tutto. Ci fu chi pensò di sottrare ad un’appartenenza comunista colui il cui fratello Guido (Guidalberto) era morto nell’eccidio di malga Porzûs, compiuto dai gappisti di “Giacca”, presumibilmente su ordine del comando del IX Corpo jugoslavo, e il padre aveva salvato Mussolini dalle mani dell’attentatore (o meglio, presunto tale) Zamboni. E poi non era stato espulso dal Pci nel 1949 per “indegnità morale”?2
Cosa Pasolini pensasse e scrivesse della morte del fratello va messo in evidenza. Va presa in considerazione la risposta ad un lettore di «Vie Nuove» che lo incalzava sulla questione: dopo aver brevemente, ma con profonda conoscenza del contesto storico-politico, descritta la fine di Guido nella situazione delle terre fra Italia e Jugoslavia durante il periodo 1943-45 (è il periodo delle foibe), così concludeva lo scrittore: «Che la sua morte sia avvenuta così in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazione e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità»3. Già nel 1955, dando alle stampe l’antologia Canzoniere italiano, dedicata alla memoria del fratello Guido, il poeta ricordava la tragedia, ossia il fatto che il fratello era stato ucciso da partigiani comunisti. Eppure capiva perfettamente che responsabile non era stato il Partito. Il 6 marzo dell’anno dopo rispondeva a Calvino, che gli aveva scritto il primo marzo (la missiva di Calvino, dedicata alla pubblicazione su «Nuovi Argomenti» di Le Ceneri di Gramsci, compare in calce a quella di risposta di Pasolini), nel modo seguente: «Mio fratello è stato la più nobile creatura che abbia mai conosciuto: è andato coi partigiani neanche diciannovenne, per pura fede e puro entusiasmo (non per fuggire, come hanno fatto tanti: non aveva ancora obblighi militari cui scampare). Era partito con sentimenti comunisti, poi lassù, in montagna, per una serie di circostanze era entrato in forza all’Osoppo [col nome di battaglia Ermes, nota mia] e si era iscritto al Partito d’Azione. Naturalmente, con l’Osoppo, si era opposto alle mire di Tito che voleva prendersi Venezia Giulia e Friuli, e dopo aver combattuto da eroe contro tedeschi e mongoli ha finito col morire da eroe, ucciso da dei comunisti impazziti e feroci. Ecco perché per me – che ho sempre votato per il Pci e che mi sento comunista – la scelta vera e propria, la scelta totale è così drammatica e difficile»4.
Pasolini non soltanto dice la verità, ma ne va sempre alla ricerca: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero»5.
L’intellettuale si riferiva all’Italia martoriata dalle stragi fasciste e dai tentativi di colpo di Stato. Lo avremmo volentieri visto oggi nel corso di un dibattito riprendere le sue provocatorie tesi su un fascismo sempre più autobiografia della nazione, molto più reale oggi, nella sua logica cinicamente antidemocratica e governativa, di quanto non lo fosse quaranta anni fa (ossia ai tempi di quello che veniva definito il sistema di potere democristiano). Ci sarebbe piaciuto sentirlo mettere in rima omologazione con globalizzazione, conformismo con melonismo; con il suo coraggio e la sua autorevolezza.
Ecco, il coraggio: ancora una volta il coraggio di dire ciò che è, sempre e dovunque. «La cosa più dura: tornar sempre a scoprire ciò che già si sa», scriveva Elias Canetti (La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972). Questa è la dimensione in cui collocare Pasolini, definito da Asor Rosa «nostro impolitico profeta» («l’Unità», 2 novembre 1993). Sulla necessità di dire la verità, soprattutto per chi milita a sinistra, già si era soffermato Antonio Gramsci. Il 3 dicembre 1918 compare sull’«Avanti!» un “capocronaca” firmato da Gramsci che annuncia l’imminente uscita dell’edizione piemontese del quotidiano. Il titolo dell’articolo è Dire ciò che è. Vi si legge:
In nessun paese del mondo in guerra la Menzogna programmatica ha così danneggiato la società come in Italia, dove l’innocenza è completamente indifesa, dove la cultura non ha diffuso sinora neppure i più elementari criteri di ricerca della verità, di esame dei documenti, dove il dubbio critico esiste solo come diffidenza calunniosa verso gli avversari dei poteri costituiti e asservimento supino alle critiche che dai poteri costituiti sono sorrette e protette. -Dire ciò che è- è il programma dell’«Avanti!» […] L’«Avanti!» è l’organo della verità, che si contrappone agli innumerevoli organi della menzogna. L’«Avanti!» rappresenta nel campo intellettuale la potenza della rivoluzione proletaria come verità. Ma non è facile il -dire ciò che è-. Per dire è necessario sapere, è necessario essere informati […] l’«Avanti!» piemontese è nato perché nel Piemonte un certo numero di proletari non ha voluto più a lungo essere ingannato dagli organi della menzogna piemontesi, e ha lavorato e ha sacrificato dei soldi per avere la verità. Anche la verità è una merce: tutto è merce in regime capitalistico. La verità è uno sforzo continuo, una continua lotta contro il tempo, contro la pigrizia, contro la disattenzione, contro il sonno che fa cascare la mano e ammorbidisce il cervello dopo una giornata di fatica; è una organizzazione dei documenti, e uno studio accurato della loro importanza, è un ordine raggiunto e superato subito dallo sviluppo continuo della realtà in fervido movimento6.
L’indicazione gramsciana di dire la verità compare sulla manchette stampata sul primo numero dell’«Ordine Nuovo» quotidiano il 1° gennaio 1921 attraverso una frase di Ferdinand Lassalle: «Dire la verità è rivoluzionario»; l’affermazione per Gramsci è assolutamente chiara, e indica un programma, in quanto «alla classe operaia non bisogna nascondere nulla di ciò che la interessa, anche se questo possa farle dispiacere, anche se la verità sembri immediatamente dannosa. Significa che bisogna trattare la classe operaia come un maggiorenne, che è fornito di ragionevolezza e di discernimento, e non come un minorenne sotto tutela»7. Tanto politico Gramsci quanto impolitico Pasolini? Impolitico è colui che rifiuta, magari soltanto per via estetica, come sembra essere per Pasolini, lo stato di cose presente. Ma già in un rifiuto di questo genere c’è un atteggiamento così totalmente marxista da anticipare ogni possibile forma di una scelta altrettanto totalmente politica: quella scelta che il poeta pagò con il martirio.
È sulla dimensione di Pasolini poeta che torna utile tentare di soffermarsi. La letteratura pasoliniana, in specie la poesia, trova un suo momento particolare, in specie dal punto di vista dell’impegno politico e civile, nel poemetto Le ceneri di Gramsci. Non si può dimenticare, scrivendone, quell’immagine del poeta davanti l’urna contenente le ceneri di Gramsci nel Cimitero acattolico della Piramide Cestia di Roma, uno scatto opera di Paolo Di Paolo8. Pasolini, impermeabile chiaro, mani affondate nelle tasche, guarda assorto l’urna: «Lo sguardo è volto al basso, verso l’urna cineraria, che emerge, in un certo senso, dalla severa lapide in pietra, circondata da una grande corona di lauro, che immaginiamo verde cupo, e ai lati i due gerani, “diversamente rossi”, li descrive il poeta. Quella immagine del poeta davanti al cippo, il modo con cui il vivo si è accostato e guarda al defunto, quasi a trarre da lui ispirazione, forza e persino, si direbbe, approvazione per i versi che egli gli ha dedicato, è la più efficace chiave di lettura dei versi pasoliniani»9. Cosa stava pensando? Forse, semplicemente, pensava che i suoi versi sarebbero diventati un tutto con l’essere comunisti? Fors’anche voleva trarre auspici da quell’urna, come un secolo e mezzo prima di lui aveva fatto Ugo Foscolo con le urne dei grandi italiani sepolti in Santa Croce a Firenze? E quando il poeta di Zacinto fa riferimento al pallore quasi mortale di Alfieri davanti a quelle urne, raffigurandolo nell’empito della speranza per le sorti future di un’Italia ancora da fare, allo stesso modo è da pensare che il poeta, bolognese di nascita, il padre Carlo Alberto discendente dei conti Pasolini Dall’Onda di Ravenna e l’amatissima madre Susanna Colussi di Casarsa in Friuli, ma romano, nello spirito e nel corpo, «figlio elettivo di Roma», com’è stato scritto e come è testimoniato10, cercava di trovare nell’urna di Gramsci, adornata dallo straccetto rosso che i partigiani portavano al collo, le stesse speranze in un’Italia liberata per sempre dal fascismo, in marcia verso la realizzazione della democrazia, pronta a fare tesoro di una secolare storia.
Il 1954 è l’anno di composizione del poemetto11. L’anno prima, nel 1953, era morto Stalin ed era stato firmato l’armistizio in Corea. Eisenhower era diventato Presidente degli Stati Uniti e Scelba Presidente del Consiglio. Ad agosto era scomparso De Gasperi. La Dc aveva avviato la cosiddetta operazione Togni che prevedeva un attacco legalizzato dal Consiglio dei ministri contro il Pci che si sarebbe dispiegato fra lo sfratto delle Case del popolo, il trasferimento di pubblici funzionari, la sospensione di sindaci e amministratori, il recupero di 158 proprietà demaniali occupate da strutture del Partito. E Pasolini scriveva, rivolgendosi a Gramsci:
«Tra speranza/e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato/per caso in questa magra serra, innanzi/alla tua tomba, al tuo spirito restato/quaggiù tra questi liberi/…E, da questo paese da cui non ebbe posa/la tua tensione, sento quale torto/ – qui nella quiete delle tombe – e insieme/quale ragione- nell’inquieta sorte/nostra – tu avessi stilando le supreme/pagine nei giorni del tuo assassinio».
Il poeta comprende l’epocalità della riflessione gramsciana, quasi ne sottolinea il tempo eterno, il für ewig, dello svolgimento individuando nelle pagine dei Quaderni del carcere, realizzate nel torto di un lungo assassinio perpetrato dal fascismo, il luogo della manifestazione dell’inquietudine di un mondo intero, di un paese intero, di un popolo intero. Ma questa consapevolezza della storicità del pensiero di Gramsci crea nel poeta una contraddizione:
«Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/con te e contro te; con te nel cuore,/in luce, contro te nelle buie viscere».
Lo scandalo del borghese che sente di essere schierato dalla parte del proletario pur non appartenendo a quella classe sociale. Lo scandalo di sentirsi dalla parte delle lotte degli sfruttati per la loro emancipazione e di vivere in una condizione che non è la condizione sociale degli sfruttati. E dopo una serie di meravigliose terzine dedicate alla riflessione sui sepolti nel cimitero della Piramide e alla descrizione del magico ambiente di Testaccio nel quale è come adagiato il cimitero stesso, il poeta arriva alla conclusione:
«…Ma io, con cuore cosciente/di chi soltanto nella storia ha vita,/potrò mai più con pura passione operare,/se so che la nostra storia è finita?».
Appare lo sconforto di chi quasi recalcitra davanti alla storia, al punto di volersi dimettere da essa e dalle sue angosce, al punto di porsi la domanda in forma autoassolutoria: la consapevolezza che la nostra storia è finita. Eppure si tratta dello stesso poeta che, appena cinque anni più tardi, scriverà un’ode alla bandiera rossa:
«Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,/tu devi realmente esistere, perché lui esista:/chi era coperto di croste è coperto di piaghe,/il bracciante diventa mendicante,/il napoletano calabrese, il calabrese africano,/l’analfabeta una bufala o un cane./Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,/sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:/tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,/ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli»12.
Le parole rivelano una dimensione prospettica di non poco conto ma, soprattutto, un accoramento e un appassionamento poetico-politico. Lo stesso che Pasolini manifesterà apertamente nel corso di un’assemblea organizzata dai giovani della Fgci e svoltasi presso il cinema Jolly a Roma l’8 giugno 1975 (una settimana prima del voto alle amministrative del 15-16 giugno, l’esito del quale fu la grande avanzata dei comunisti, ribadita alle politiche dell’anno dopo, e pochi mesi prima del suo martirio):
… so che in questo paese non nero ma solo orribilmente sporco c’è un altro paese: il paese rosso dei comunisti. In esso è ignota la corruzione, la volontà di ignoranza, il servilismo. È un’isola dove le coscienze si sono disperatamente difese: e dove il comportamento umano è riuscito a conservare l’antica dignità. La lotta di classe non sembra più contrapporre rivoluzionari e reazionari, ma, ormai, quasi uomini appartenenti a razze diverse. Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita…13.
È un invito quasi programmatico che proviene da una delle voci più alte e assolutamente e totalmente contemporanee della poesia civile italiana.
Una voce che ha saputo tradurre in pratica l’insegnamento gramsciano sul ruolo degli intellettuali e sul loro rapporto con il popolo:
L’errore dell’intellettuale consiste 〈nel credere〉 che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il “sapere”; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione14.
Proprio sul tema del rapporto intellettuali-popolo, il 21 ottobre del 1975, pochi giorni prima del suo assassinio, Pasolini tenne un dibattito con studenti ed insegnanti nel corso del quale dovette difendere Gramsci dall’accusa di avere una visione nostalgica e reazionaria del passato. Per il poeta, la presa di posizione dell’intellettuale comunista a favore di una cultura popolare non era reazionaria così come non doveva essere considerata estranea o indifferente ai problemi del mondo dei subalterni: «Gramsci era per loro, era per quella cultura, avrebbe voluto la sopravvivenza di quelle culture, perché quelle culture erano gli operai, erano i proletari, erano i contadini, e non voleva la loro distruzione, è chiaro, voleva che le loro culture entrassero dialetticamente in rapporto con la grande cultura borghese in cui lui stesso, come Engels, si era formato ed era assolutamente contrario al loro genocidio»15. E, commentando le Lettere dal carcere, faceva propria un’affermazione del Gramsci dell’«Ordine Nuovo»: «No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia!»16.
A Pasolini, com’è noto, fu riservata una morte violentissima. Il suo corpo fu straziato in modo orrendo. «Ma quella morte trasformò il suo corpo martoriato in una icona, una riproposizione del “Che” massacrato in Bolivia, che a sua volta aveva richiamato immediatamente il Cristo morto di Mantegna: quella icona serba in sé e trasmette a noi un insieme eccezionale di messaggi ai quali non smettiamo di riferirci»17. Un riferirsi quasi fraterno, da compagni, come quello di Pasolini a Gramsci. Ma per riferirsi a Pasolini nei modi appena indicati, bisogna fare tesoro di quanto scriveva Franco Fortini ricordando il poeta a due giorni dal suo assassinio: «Meno commozione per Pasolini, più amore e intelligenza per quello che egli ci ha detto»18. Quindi, non può non esserci commozione ma non può esserci soltanto quella! E, soprattutto, attenzione alle apologie bipartisan! Nutrite di ignoranza, di ipocrisia, di strumentalizzazioni e appropriazioni per nulla richieste!
1 Novembre 2006. Gigi Proietti legge “Le ceneri di Gramsci” di PPP
2 Il 29 ottobre u.s. la Camera ha ricordato il poeta nel 50° anniversario dell’assassinio. Da sinistra a destra un coro apologetico che lo avrebbe fatto di certo rabbrividire: mentre il Pd metteva in evidenza il fatto che non era troppo ben accetto alla dirigenza del Pci, esponenti vari della destra si sono detti orgogliosi dell’eredità lasciata dal poeta. Questo è! Sulla questione specifica dell’espulsione di Pasolini dal Pci e della sua collaborazione con «Vie Nuove», la rivista fondata da Luigi Longo nel 1946, si veda A. Tonelli, Per indegnità morale. Il caso Pasolini nell’Italia del buon costume, Roma-Bari, Laterza, 2015.
3 P. P. Pasolini, Le belle bandiere, Roma, Editrice l’Unità, 1991, p. 112. Pasolini tenne dal 4 giugno 1960 al 30 settembre 1965, con varie interruzioni, una rubrica settimanale di corrispondenza, i Dialoghi con Pasolini, con i lettori di «Vie Nuove». La lettera citata, intitolata Mio fratello, è datata 15 luglio 1961.
4 P. P. Pasolini, Le lettere, nuova edizione a cura di A. Giordano e N. Naldini, Milano, Garzanti, 2021, p. 111. Nello stesso volume (pp. 470-480) compare la lettera che Pier Paolo scrisse al fratello nel maggio del 1945 alla notizia della morte di questi, nella quale si legge: «…ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo» (ivi, p. 471). Ora la lettera è riproposta nel volume Lettera al fratello e altri scritti, a cura di Graziella Chiarcossi, Milano, Garzanti, 2025. Scrivendo a proposito della lettera (Lettera-referto sull’entusiasmo, «il manifesto», 28 ottobre 2025), Massimo Raffaeli ha individuato proprio in “entusiasmo” la parola chiave.
5 14 novembre 1974, Il romanzo delle stragi, pubblicato sul Corriere della sera con il titolo Che cos’è questo golpe? in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Scritti corsari [1973-1975], [I Meridiani] Milano, Mondadori, 1999, p. 363.
6 A. Gramsci, Dire ciò che è [3 dicembre 1918] in id., Scritti (1910-1926) 3 1918, a cura di L. Rapone e M. L. Righi, Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Roma, Treccani, 2023, pp. 771-772.
7 A. Gramsci, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922 [l’articolo è del 17 marzo 1922], Torino, Einaudi, 1974, pp. 476–477.
8 L’odierna collocazione dell’urna cineraria, in un primo tempo posizionata in una zona interna del Cimitero e ora a ridosso dell’uscita su via Zabaglia, risale agli Anni Cinquanta del secolo scorso quando lo spostamento si rese necessario per concedere spazio ai visitatori in modo particolare per le celebrazioni degli anniversari della morte del dirigente comunista avvenuta il 27 aprile 1937. Ringrazio l’amico e compagno Paolo De Prai per queste preziosissime informazioni.
9 A. d’Orsi, Pasolini tra Gramsci e Marx nel dibattito politico-intellettuale degli anni cinquanta, in P. Desogus (a cura di), Il Gramsci di Pasolini. Lingua, letteratura e ideologia, Venezia, Marsilio, 2022, p. 72. Pasolini stesso ha fatto presente, nel corso di un’intervista del 1963, che «l’unico antenato spirituale che conta è Marx e il suo dolce, irto, leopardiano figlio, Gramsci» (P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1573).
10 Cfr D. Pontuale, La Roma di Pasolini. Dizionario urbano, Introduzione di S. Zecchi, Roma, Nova Delphi, 20222. Il Dizionario va dalla lettera A di Accattone alla lettera V che si apre con Valle Giulia, battaglia di. A tal proposito si veda la nota 11.
11 La raccolta di poemetti che ha come titolo Le ceneri di Gramsci sarà pubblicata nel 1957 come volume composto da undici poemetti dei quali fa parte il poemetto su Gramsci che era già apparso nella rivista «Nuovi Argomenti» (anno IV, n. 17-18, novembre 1955 – febbraio 1956, pp. 72-82) ricevendo apprezzamenti notevoli fra i quali quello di Italo Calvino, in una lettera del primo marzo, come precedentemente ricordato; en passant, la raccolta pasoliniana vinse il Premio Viareggio per la sezione Poesia nel 1957 ex aequo con Alberto Mondadori (Quasi una vicenda) e Sandro Penna (Poesie) proprio dieci anni dopo l’assegnazione dello stesso Premio alle gramsciane Lettere dal carcere. Pasolini scriveva a Livio Garzanti il 5 marzo 1957: «Caro Garzanti, ieri sera, scendendo le scale di casa Moravia, Debenedetti [Giacomo, nota mia], prendendomi a braccetto e tirandomi in disparte, mi ha detto di voler dare alle mie poesie il Premio Viareggio. I comunisti – Gallo e gli altri – sono similmente intenzionati. Me l’ha fatto capire Antonello Trombadori» (P. P. Pasolini, Le lettere, cit., p. 1067).
12 P. P. Pasolini, Alla bandiera rossa in Id., La religione del mio tempo, Prefazione di F. Marcoaldi, Milano, Garzanti, 2024 [1961], p. 128.
13 P. P. Pasolini, Il mio voto al Pci in «l’Unità», 10 giugno 1975, ora in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 852. Vale la pena di ricordare che il 16 giugno del 1968 «L’Espresso» pubblicava un testo di Pasolini intitolato Il Pci ai giovani nel quale il poeta rifletteva su quanto accaduto a Valle Giulia il primo marzo. Per una valutazione equa di quel testo, molto frainteso e, di conseguenza, molto strumentalizzato, si legga l’articolo dello storico Giovanni De Luna Ma Pasolini non stava con i poliziotti, «La Stampa», 1 marzo 2018: https://www.lastampa.it/cultura/2018/03/01/news/ma-pasolini-non-stava-con-i-poliziotti-1.33986178/
14 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1505; si tratta del Q11, nota 67.
15 P. P. Pasolini, Volgar’eloquio, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, [I Meridiani], Milano, Mondadori, 1999 p. 2845. Il testo fu pubblicato postumo.
16 A. Gramsci, Cronache dell’Ordine Nuovo [IV], 14 giugno 1919, in Id., L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Torino, Einaudi, 1987, p. 79; Pasolini fa propria l’esclamazione di Gramsci in P.P. Pasolini, Dal laboratorio in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 1310.
17 A. d’Orsi, Pasolini tra Gramsci e Marx nel dibattito politico-intellettuale degli anni cinquanta, cit., p. 83.
18 F. Fortini, In morte di Pasolini, «il manifesto», 4 novembre 1975 ora in Id., Attraverso Pasolini, a cura di V. Celotto e B. De Luca, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 143.
Fonte parziale: l’articolo si avvale di alcuni passi di uno scritto pubblicato su «La Città Futura», 30/10/2015.
Immagine di copertina: Pier Paolo Pasolini di fronte alla tomba di Antonio Gramsci, ANSA, Autore sconosciuto, fonte Wikimedia Commons, PD per decorso del tempo
