Una nota del Miur (allora era ministra Valeria Fedeli) del 4 maggio 2017 recitava: “A ottant’anni dalla morte di Antonio Gramsci si invitano le scuole a riflettere sulla sua figura e sul suo pensiero, utili per comprendere la complessità del presente che viviamo e le sue radici storiche, per promuovere occasioni di studio, ricerca e approfondimento”. Questa nota, seppur diffusa doverosamente nelle nostre scuole, non ha sortito alcun effetto, nel senso che di Gramsci nessuno, ad eccezione di docenti particolarmente sensibili ed attente/i, ha parlato. Eppure, al di là delle solite forzature politico-ideologiche sul fondatore del Pcd’I e, quindi, sul comunista Gramsci, buoni motivi di carattere culturale per parlarne ce n’erano.

Infatti la diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo è forse, tra i grandi italiani, superata soltanto da Dante. Basterebbe fossero ricordate le parole di Eric J. Hobsbawm, il grande storico scomparso nel 2012, il quale faceva presente che “l’elenco degli autori di tutto il mondo le cui opere sono più frequentemente citate nella letteratura internazionale di arte e di umanità contiene pochi nomi di italiani, di cui soltanto cinque nati dopo il XVI secolo. In questo elenco non è compreso né Vico né Machiavelli, mentre invece è citato Antonio Gramsci. Essere citati non significa ancora garanzia di conoscenza e neppure di comprensione per l’autore in questione, tuttavia è pur sempre indizio di una presenza intellettuale” [1].

Essere citato non è, quindi, sufficiente per affermare la notorietà di un qualsiasi autore. E questo vale di certo per Gramsci, anche se per lui si pone la questione del perché sia quasi uno sconosciuto nelle nostre scuole, ossia in quelle italiane, e in genere nel nostro Paese. Eppure quale studente non vorrebbe avere un insegnante come Gramsci e quale insegnante non vorrebbe avere uno studente come Gramsci?

Scriveva Rabbi A. Vussun (XII secolo): “Molti ci insegnano qualche cosa qualche volta, sono pochi quelli che qualche volta ci insegnano cose importanti, ma sono pochissimi quelli che ci insegnano cose importanti per tutta la vita: e questi sono i nostri Maestri, a cui va il nostro amore” [2].

I Maestri, al dunque, sono quelli che invitano al rigore e alla disciplina interiore, a non essere trascurati e a seguire un metodo che non faccia dire a ciò che leggiamo quello che noi vorremmo ci fosse scritto; il Maestro è quello che ci invita a metterci nei panni degli avversari tenendo presente, però, che se ne potrebbe anche provare disgusto e desiderare essere ingiusti per non svenire per eccesso di disponibilità; il Maestro è quello che educa tenendo nel giusto conto le contraddizioni e quel grumo inesauribile di razionale e irrazionale che è l’essere umano. Il Maestro è colui/colei che, davanti ad un insuccesso dell’allievo/a, lo/la incoraggia affinché “continui a studiare in tutti i modi; potrà perdere qualche anno, per dannata ipotesi, come tempo materiale in una certa carriera scolastica, ma non li perderà del tutto se migliorerà ogni giorno la sua cultura, la sua preparazione generale, se allargherà l’orizzonte delle sue cognizioni e dei suoi interessi intellettuali” [3].

Resta senza risposta la domanda di fondo: perché è necessario introdurre Gramsci nelle nostre scuole? Si legga questo passo dei Quaderni del carcere opportunamente richiamato nella circolare ministeriale citata all’inizio: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale” (Q12, 2, 1549 [4]).

Lo studio è un lavoro, afferma Gramsci; la scuola va considerata un lavoro, le ore a scuola sono ore di lavoro senza doverle alternare con altre attività che, automaticamente, verrebbero a privare il lavoro della scuola di quello che esso è nella realtà: appunto, lavoro. Nella scuola di oggi, a differenza di quanto accadeva nella scuola riformata gentiliana, divisiva per principio [5], il lavoro è nell’aula, sia essa di un istituto tecnico sia essa di un liceo classico; in entrambi i casi, il lavoro che si svolge parte da un identico principio educativo esprimibile così:

“Io credo che una delle cose più difficili alla tua età è quella di star seduto dinanzi a un tavolino per mettere in ordine i propri pensieri (o per pensare addirittura) e per scriverli con un certo garbo; questo è un apprentissaggio talvolta più difficile di quello di un operaio che vuole acquistare una qualifica professionale, e deve incominciare proprio alla tua età”. [6]

Cosa si fa per stare seduto tanto tempo e per mettere in funzione i propri pensieri? Si studia disinteressatamente. Gramsci-studio-lavoro vanno insieme e possono preparare una generazione di cittadine e cittadini di nuovo profilo, sottratte/i al senso comune corrente e capaci di proporre un nuovo senso comune dell’inclusione, della discussione, del confronto e della democrazia.

Quindi esiste un elemento di coercizione, secondo Gramsci, nel processo educativo. Il nesso dialettico che Gramsci pone fra spontaneità e imposizione, fra libertà e coercizione risulta il problema centrale, ossia la coercizione su chi deve imparare non è un fatto di pura e semplice imposizione bensì deve presentarsi come la progressiva sollecitazione alla maturazione che non può darsi in modo spontaneo in quanto il discente deve essere reso capace di libertà, deve essere guidato, proprio dal punto di vista dell’«egemonia corazzata di coercizione» (Q6, 88, 764), lungo la strada che conduce alla libertà [7].

“Perciò si può dire che nella scuola il nesso istruzione-educazione può solo essere rappresentato dal lavoro vivente del maestro, in quanto il maestro è consapevole dei contrasti tra il tipo di società e di cultura che egli rappresenta e il tipo di società e di cultura rappresentato dagli allievi ed è consapevole del suo compito che consiste nell’accelerare e nel disciplinare la formazione del fanciullo conforme al tipo superiore in lotta col tipo inferiore (ivi, 1542)”.

Gramsci, perciò, pone al centro del circuito docente-discente il ruolo dirigente del primo che, nella sua posizione, deve assicurare la centralità dell’obiettivo dell’apprendimento non nel valore pratico-professionale delle nozioni acquisite bensì nella proposta di uno studio che “appariva disinteressato, perché l’interesse era lo sviluppo interiore della personalità (ivi, 1543-4)” [8].

Educare ergo istruire, ossia portare a compimento l’impresa di porre le premesse di una formazione che, in modo spontaneo e non indotto, avendo la storia come riferimento, consenta l’apprendimento di quelle nozioni concrete che, uniche, riescono anche ad istruire; ossia fare in modo che il discente si getti nella storia al fine di acquisire “una intuizione storicistica del mondo e della vita, che diventa una seconda natura, quasi una spontaneità, perché non pedantescamente inculcata per «volontà» estrinsecamente educativa (…) In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete (ivi, 1546)”.

Se lo studio «deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato», come scrive Gramsci, c’è bisogno di chi, partendo dalla considerazione che lo studio è per lui stesso disinteressato (terminus a quo), lo faccia conseguentemente apparire disinteressato, cioè della figura che svolga la funzione di dirigere, di prendere l’iniziativa al fine di realizzare un percorso che sia, al contempo, educativo e istruttivo, cioè formativo: si tratta del docente che, quindi, assume la funzione dirigente.

Ma quali caratteristiche dovrà avere la scuola del futuro? Il problema della scuola. Postilla, pubblicato su “L’Ordine Nuovo” del 21 giugno del 1919 [9] è una riflessione sull’organizzazione della scuola del futuro (infatti, Gramsci inizia l’articolo scrivendo della scuola in Russia, dove era avvenuta la Rivoluzione del 1917) in Italia. Certamente il punto di vista di Gramsci è fortemente condizionato dall’entusiasmo per i fatti russi; ciò non toglie, però, che molte delle sue considerazioni sulla scuola, sul disinteresse dello Stato nei suoi confronti, su cosa si insegni e perché, fanno venire alla mente un’attualità in cui si vive; senza contare che le domande che Gramsci pone alla fine del suo articolo non hanno trovato risposta ancora oggi [10].

L’attualità, inoltre, impone una riflessione particolare sull’insegnamento della storia. La risposta di alto profilo che lo stesso Gramsci propone è in una lettera al figlio maggiore Delio: “Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio” [11].

Note

[1] E. J. Hobsbawm, Per capire le classi subalterne in Rinascita-Il Contemporaneo, “Gramsci nel mondo”, 28 febbraio 1987. Eric John Ernest Hobsbawm (1917-2012) è stato uno storico e scrittore britannico. Nato in una famiglia ebraica di origini austriache, studioso di formazione marxista, Hobsbawm ha dedicato molte delle proprie ricerche alla classe operaia inglese e al proletariato internazionale. Fra le sue opere è molto famosa Il secolo breve (Rizzoli, Milano 1995). La fonte dell’informazione fornita da Hobsbawm è Eugene Garfield, Current CommentsThe 250 Most-Cited Authors in the Arts & Humanities Citation Index, 1976-1983. La ricerca è datata 1° dicembre del 1986. Se qualcuno provasse a intraprenderne un’altra, sicuramente Gramsci confermerebbe la sua posizione vista la mole impressionante di studi e di ricerche a lui dedicati nel mondo intero e testimoniati dalla Bibliografia gramsciana. Per conoscenza universale, gli altri quattro italiani fra i 250 autori dal XVI secolo più citati secondo l’Indice delle citazioni della letteratura mondiale di arte ed umanità sono Giorgio Vasari, Giuseppe Verdi, Benedetto Croce ed Umberto Eco.

[2] Questa citazione compare nella quarta di copertina di un volume fuori commercio di Giuseppe Prestipino, Frammenti di vita ingiusta, Edizioni Punto Rosso, Milano 2012.

[3] A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo 1996, p.701; d’ora in avanti LC.

[4] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975; si cita da questa edizione indicando il Quaderno, il numero della nota e quello della pagina.

[5] “Sul piano dei contenuti e dei metodi la riforma accentua la forbice del sistema dualistico fra la scuola disinteressata per eccellenza e classicamente formativa (ginnasio-liceo) e gli studi preparatori a mestieri e ad attività secondarie (scuole tecniche e professionali). Questi ultimi non danno agli allievi che li frequentano alcuna possibilità di mobilità e di passaggio ad altri campi e settori di studio; si tratta di indirizzi scolastici chiusi al loro interno, che funzionano come canne d’organo, e finalizzati all’acquisizione di nozioni pratiche per i vari mestieri. L’istruzione classica, invece, serve a preparare i quadri dirigenti del Paese e ad essa viene posta una particolare attenzione, che si concentra sull’insegnamento del latino e del greco e, poi, della filosofia e della storia delle tradizioni e della passata grandezza” Sarracini-Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative (1830-1999). La cultura della formazione, Liguori, Napoli 2001, p. 65.

[6] LC, pp. 776-777. Lettera al figlio Delio del 16 giugno 1936.

[7] La moderna pedagogia usa, a proposito del nesso di apparente coazione che si stabilisce fra docente e discente, l’ossimoro “autorità liberatrice” all’interno del quale il nesso autorità-libertà si pone solo nel caso in cui entrambi i soggetti si propongano nell’ottica di dare forma a delle possibilità attraverso l’uso della parola. In questa ottica l’autorità può anche essere potere ma soltanto se riesce a rendere l’altro consapevole delle proprie possibilità e, quindi, lo renda libero di esprimersi e manifestarsi nel suo proprio essere.

[8] Qui ed ora il tempo al passato usato da Gramsci va considerato al presente perché lo studio disinteressato è il soggetto-oggetto di quanto si sta scrivendo e proponendo. Quindi la citazione va letta nel modo seguente: lo studio “appare disinteressato, perché l’interesse è lo sviluppo interiore della personalità”. Questa posizione è di certo minoritaria eppure della necessità di andare oltre il semplice utilitarismo come obiettivo della scienza dell’educazione e di quella sua articolazione che è la didattica si sente la necessità; “(…) ogni sapere deve essere utile, ogni insegnamento deve servire a qualcosa…” (M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2013, p. 44) è la spina dorsale dell’attività odierna nelle scuole. Così, però, non si trasforma, non si forma; ci si intristisce e si rimane schiavi dell’utilitarismo.

[9] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Einaudi, Torino 1987, pp. 98-100.

[10] «Nello Stato dei Consigli, la scuola rappresenterà una delle più importanti ed essenziali attività pubbliche. Diciamo anzi: allo sviluppo e alla buona riuscita della scuola comunista è legato lo sviluppo dello Stato comunista, l’avvento di una democrazia in cui sia assorbita la dittatura del proletariato. La generazione odierna si educherà alla pratica della disciplina sociale necessaria per attuare la società comunista, coi comizi, con la partecipazione diretta alla deliberazione e all’amministrazione dello Stato socialista. La scuola dovrà allevare le generazioni nuove, quelle che godranno il frutto dei nostri sacrifici e dei nostri sforzi, quelle che conosceranno, dopo il periodo transitorio delle dittature proletarie nazionali, la pienezza di vita e di sviluppo della democrazia comunista internazionale. Come attuerà questo suo compito la scuola comunista? Come dovrà essere organizzata la funzione educativa dello Stato nel sistema generale dei Consigli? Quale compito amministrativo dovrà essere svolto dai Sindacati dei maestri e dei professori? Le Università e i Politecnici come verranno trasformati e coordinati all’attività generale di cultura? Cambiata la costituzione e mutati i principi fondamentali del diritto, quale figura dovrà avere la facoltà di legge? E le biblioteche, e i musei, e le gallerie quale fine dovranno avere? La nostra rassegna conta tra gli abbonati e tra i lettori, una forte schiera di giovani studenti, di artisti, di professori, di maestri che hanno la capacità e la preparazione per impostare criticamente questi problemi e tentarne la soluzione. Facciamo appello alla loro volontà buona, al desiderio che essi sentono vivo di collaborare utilmente all’avvento dell’ordine nuovo comunista».

[11] LC, pp. 807-808

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